giovedì 30 giugno 2011

Io Madonna del latte? Poco credibile.

"Ma tu hai allattato?"
Ecco una delle domande più frequenti che, in quanto mamma e da quando mamma, mi sento rivolgere, senza capire bene che conclusioni il mio eventuale interlocutore crede di poter trarre da una mia risposta in senso negativo o affermativo.
Chissà per quale strano meccanismo della mente rispondere a questa domanda apparentemente semplice getta la mamma in uno stato d'animo curiosamente eccitato, in bilico tra la volontà di rassicurare l'intervistatore di turno, la necessità di giustificarsi chissà per quale insondabile colpa o negligenza, e l'orgoglio di poter rispondere che, sì, in effetti ho allattato.
E qui potrei tranquillamente fermarmi.
E invece vado avanti a spiegare a quello, che quasi sicuramente non ha la minima idea di ciò di cui io stia parlando, com'è che ho smesso al quarto mese anziché al sesto, o addirittura all'anno, come pare sia altamente consigliabile e preferibile, come io abbia provato a insistere quando ho constatato che le mie tette avevano dato tutto il possibile e che le risorse alimentari che ero disposta a elargire erano esaurite, come non mi possa dolere dell'interruzione non certo da me voluta né cercata, ma in fondo ben accolta, quando ho potuto realizzare quanto mi sentissi più riposata e in forze una volta eliminato l'appuntamento con la poppata quattro o cinque volte al dì.
E con questo non voglio dire che la cosa in sé non sia gratificante e appagante. Solo che, nel mio caso, davvero non ho sofferto di nostalgia nel perdere questa consuetudine, le cui gioie ho dimenticato ben presto, ben più presto di quanto non mi sarei mai immaginata.

Dicono quando sei incinta: "Eh, ti mancherà il pancione!" E io ci credevo, anzi: ne ero profondamente convinta, che mi sarebbe mancato. Ma tutta quella lunghissima e dolorosa trafila di 40 ore e più aspettando di eliminarlo, toglierebbe a chiunque il rimpianto di non poterselo più accarezzare con dolcezza, e sguardo sognante, perso nell'imminenza di un meraviglioso domani.
Non mi è mancato il pancione, e non mi è mancato l'allattamento, anzi, con grande mia soddisfazione ho accolto il nuovo paio di tette che Madre Natura mi ha lasciate decisamente ridimensionate rispetto a come me le ricordavo, magari un poco smosciatelle, sì vabbé, non si può volere tutto dalla vita.
E' che io come dispensatrice fisiologica di nutrimento non mi ci vedo molto. E invece ho sempre avuto questo generoso paio di bocce che mi facevano sentire piuttosto atta alla mungitura, sensazione che invece si rivelerà esser stata unicamente illusoria. E i vestiti non mi stavano mai bene, soprattutto quelli con la fascia sotto il seno, che invece a me stava sempre sopra, e le camicie non mi si chiudevano, e un viscido capo che ho avuto durante un mio periodo di lavoro in una libreria di Pisa, amava rivolgersi a me con l'odioso appellativo di Miss-puppe. Tutto questo non c'è più, da quando ci sei tu.

Ma si parlava di allattamento.
Cosa dirvi che non sia stato già detto centuplicanta volte da altre?
Di quei mesi ho ricordi fumosi e confusi, come confusi e fumosi si ricordano generalmente i sogni, indice del fatto che non ero propriamente in me.
Ricordo la stanchezza, cronica, perenne, non ordinaria. Ricordo che avrei voluto dormire sempre, se possibile, e invece dormivo sempre poco e male, e comunque mi sarei volentieri risparmiata la prospettiva di trascorrere la stragrande maggioranza dei miei pomeriggi a trottare per la città a passo da bersagliere con una pupa infilata nel marsupio, ché lei solo così dormiva per periodi abbastanza lunghi da permettere a me di ricaricarmi nevralgicamente dai suoi incessanti pianti e richieste di attenzione.
Ricordo la mia impacciataggine a dover tirar fuori 'sta tetta enorme nei più svariati contesti, ché io non son mai stata di quelle che "vive la naturalesse", e tanto meno mi sentivo a mio agio calata nel ruolo di colei che offre il proprio corpo alla funzionalità primordiale e primaria di dispensare nutrimento e vita.
Mi sentivo relegata in un universo che non mi apparteneva troppo, ecco.
Non che lo facessi controvoglia, ma... lo facevo come un dovere a cui non mi sottraevo.
I primi tempi forse la mia resistenza psicologica potrebbe aver inibito anche la mia produzione lattifera, dato che fino a qualche giorno dopo la dimissione dall'ospedale, di produzione non ve n'era stata.
E non so se sia stato un fattore naturale e fisiologico, quanto piuttosto l'errato approccio ospedaliero, che nei primi due giorni dopo il parto ha mantenuto una distanza fisica ed emotiva tra me e il frutto del grembo mio, impedendomi di familiarizzare troppo sia con lei che con il mio nuovo status, e invece di "lavorare" sulla questione latte me ne andavo gironzolando per l'ospedale in preda a un'euforia difficilmente spiegabile, se si considera quello che chiamano "crollo ormonale post partum", ad accogliere gioiosa amici e parenti. E poi, oh, è di nuovo ora della poppata, scusate, ma devo andare.

Lì nel reparto neonatologia dell'edificio, la figura tipo dell'infermiera (ostetrica?) addetta al nido era più o meno questa: un'acida giovane donna intorno ai trenta, fresca fresca di laurea, saputella e scostante, con l'invalsa abitudine di trattare come pezze da piedi le malcapitate maldestre frastornate neomadri che osavano mettere piede nel loro regno senza essersi prima adeguatamente preparate sulla materia allattamento.
Io ero una di quelle.
Non sono una che prende i problemi con un ampio margine di tempo per l'azione.
Durante la gravidanza ho partecipato ad un corso pre-parto informativo in cui però la parte relativa all'allattamento, come ci dissero, era stata eliminata dal programma, poiché si era rivelata essere piuttosto inutile. Quando ci spiegarono in cosa consisteva questa parte del corso, fui d'accordo con la definizione di inutile. Consisteva dunque nel tenere in braccio a turno un orso di peluche delle dimensioni approssimativamente simili a quelle di un neonato, e nel mimare con lui in braccio il gesto di portarlo al seno. Ora la cosa, solo a pensarci, mi appariva grottesca e farsesca.
E infatti credo tuttora che fosse una pratica piuttosto inutile, come potrebbe confermare qualsiasi donna che abbia avuto a che fare con un neonato da allattare al seno.
Non c'entra molto con un orsacchiotto di peluche.
Il bambino appena nato è tutto floscio e casca da tutte le parti. L'orso no.
Il bambino ti dà l'impressione che se lo prendi male si rompa, che ti cada, che stia scomodo. Con l'orso non ti poni certi problemi.
Infine il bambino appena nato sembra trovarsi perennemente in uno stato letargico, dal quale ti sembra quasi un delitto doverlo riscuotere per potergli somministrare quel nutrimento che lui non si sogna nemmeno di chiederti.
E infatti Suster trascorreva un buon due terzi del tempo a disposizione per la poppata a contemplare la sua meravigliosa pargola dalla nera zazzera di capelli e occhi da cinesina, costantemente chiusi dal sonno. Credeva infatti che anche quella contemplazione estasiata facesse in qualche modo parte del complesso processo di instaurazione del rapporto madre-figlia, e pazienza se poi la pupa non si attaccava. Ma svegliarla, come potevo?
Così che ero sempre l'ultima ad attardarmi nel nido e, quando le altre rinfoderavano soddisfatte le proprie tette nei capienti reggiseni a scomparti estraibili, io stavo ancora lì a combattere con le mie, e mi attardavo ben oltre l'orario predisposto alla poppata. Le bambinaie laureate scalpitavano. Quando si dice: rispettare i tempi e le naturali esigenze del bambino (e della mamma, aggiungerei, la quale ha tutto il diritto di essere imbranata, cribbio!).
Comunque ben presto venni aspramente redarguita dalla capo-nursery miss-sottuttoio con queste parole: " Ma ragazze, possibile che vi ci voglia un'ora per allattare? Eh, su, svegliatevi un po'!"
Che nel mio caso non era proprio un invito fuori luogo. In effetti ero un pochino imbambolata, e non vedevo l'ora di potermene andare a casa mia a fare le cose nell'intimità delle mie stanze e senza nessuno che mi facesse sentire un'idiota se non riuscivo ad attaccare la bambina. Credevo io.

Ovviamente quel giorno arrivò e la scena che si verificò fu questa: io sola in casa, pupa urlante in braccio affamata e molto incacchiata. Di latte nemmeno l'ombra. Eravamo passati al supermercato a comprare il latte in polvere, ma nello stordimento generale, che a quanto pare aveva coinvolto anche il padre, c'eravamo dimenticati il biberon. Lui poi era andato a lavoro, e io mi ero accorta troppo tardi della dimenticanza, e allora spedisci mia madre a comperare l'indispensabile strumento, mentre io tentavo di imbonirmi la piccola.
Due amici arrivarono in quel frangente in visita e mi trovarono nel panico più totale. Scapparono via costernati dalle urla della dolce frugoletta per mai più tornare.

Attaccare la pupa al seno fu quanto di più doloroso le mie povere tette avessero mai sperimentato.
Il giorno dopo la dimissione dall'ospedale mi ritrovavo con due vulcani paonazzi laddove un tempo avevo due prominenti seni. Non saprei dirvi a che taglia di reggipetto io fossi arrivata poichè ormai giravo per casa coi vulcani al vento, avendo rinunciato a indossare qualsiasi indumento che mi potesse conferire un minimo di decenza, poiché qualsiasi contatto con la stoffa mi procurava grande dolore.
I vulcani erano paonazzi e gonfi all'inverosimile, ma dall'alto non stillava una goccia del prezioso liquido vitale.
La pupa intanto rivelava il suo reale carattere che finora aveva tenuto ben celato ai nostri occhi, forse nel timore che potessimo pensare di abbandonarla all'ospedale, e lasciare che fosse cresciuta dalle saccenti infermiere della nursery. Sbraitava e vieppiù si incaponiva e infieriva sui miei poveri incolpevoli vulcani doloranti con unghiette sufficientemente lunghe e affilate da procurarmi dolorosissimi graffi, al punto che mi vidi costretta a infilarle due calzini nelle mani per frenarne la furia distruttrice.
Fu allora che iniziai a dubitare di amare davvero mia figlia.
Tutto questo che vi ho descritto lo troverete nei manuali sotto la voce "ingorgo mammario". Care future mamme, vi auguro di non sperimentarlo mai.
Alla sera del secondo giorno toccai la pupa e mi sembrò che avesse la febbre. Sbagliavo: ero io ad avere la febbre, e stavo una merda. Sempre ingorgo mammario.
E qui vi faccio fare conoscenza con un altro simpatico strumento di tortura che si chiama "tiralatte".
Va infatti il padre nottetempo ad acquistarne uno in farmacia alla modica cifra di chevvelodicoaffare, meglio lasciar perdere, perché così aveva prescritto l'amica ginecologa di mia madre per telefono, per "sgorgare" i vulcani.
Il mio era un tiralatte a pompetta, che ora che ci penso potrei ritenere in parte responsabile della successiva tendinite carpale che mi porto dietro ormai da mesi.
Pompa pompa alla fine qualcosa esce: antiestetico liquido giallo opaco dalla consistenza simile a quella del burro fuso.
E fu così che finalmente allattai.
Tralascio i casini con gli orari, le paranoie, le indicazioni discordanti del pediatra, allatti troppo, allatti troppo poco, fai passare troppo tempo tra una poppata e l'altra, no ne fai passare troppo poco ecco perché 'sta bambina c'ha sempre le coliche.
Tralascio bilancia, pesate, nuove paranoie, ma sta bambina mangia o no? Ma l'aggiunta glie la devo dare? E svegliarsi mezz'ora prima per tirarmi il latte che ieri sera questa tetta non l'ho munta e ora mi sta per esplodere. Ma perché appena la prendo in braccio io inizia a piangere? Ecco, da me ci viene solo per mangiare, mi vede come una tetta gigante, io non ce la faccio più mi fa male la schiena, e addormentarmi con la cervice a novanta gradi reclinata su lei addormentata al seno che non ha fatto il ruttino e quindi mi ha intanto anche rigurgitato addosso.
Bellissime istantanee di vita che darei volentieri alle fiamme.

E quando finalmente credi di aver preso il ritmo, finito tutto: le erogazioni chiuse.
E allora ci provi per un po' con l'aggiunta artificiale, magari poi riprende, però mi raccomando falla attaccare se no non stimola il latte. E quella che ancora piange perchè non esce niente.
Ok, sono passati quattro mesi, che faccio? Diminuisco le poppate?
Stiracchia stiracchia, il latte è sempre meno. E allora sai che si fa?
Basta finiamola qui. Ma ora la bambina rimarrà traumatizzata, come farà senza la tetta di mamma, nutrita ad uno sterile (si fa per dire) arido biberon di latte in polvere ricostituito?
Ma la bambina nemmeno si accorge del passaggio di testimone.
Afferra soddisfatta il suo biberon e da quel momento vuole cambiar pure postura: non più adagiata sulle ginocchia di mamma; ora il latte si prende da seduta, e alla mamma si danno le spalle, così si può avere miglior visuale del mondo di fronte.
No, alla pupa non sembra esser mancato particolarmente il seno. E neanche a me l'allattamento. Niente traumi, tranquilli tutti.
Ecco: io come Madonna del latte continuo a non vedermici gran che. Archiviata momentaneamente e a tempo indefinito quella fase di mia vita, di cui non conservo quasi immagine visiva, nemmeno su carta fotografica.

Niente foto di me puppe all'aria mentre dispenso vita alla mia dolce frugoletta. O quasi!
Dico quasi perché una ce l'ho. E faccio questo sforzo di pubblicarla: la mia versione della Madonna del latte. Eccola:


Beh, chiarissimo, no? Direi che parla da sola. Scattata a tradimento. Io che ho una faccia tipo: "Minchia guardi?". E se ci fate caso, c'è pure Panzumen, che se la dorme beato, lì accanto.


Questo post partecipa al blogstorming


martedì 28 giugno 2011

Roba da gatti. Se lo ami lascialo andare


Sono vergognosamente in ritardo anche questa settimana, tanto da rischiare di rendere poco credibile questa rispettabilissima rubrica.
Se sapeste che giornata del piffero ho avuto, sono sicura, mi perdonereste.
Indovinate: chi è quel ragazzino coi calzoncini rossi e i capelli a casco semi-integrale abbarbicato al gatto nero come a una boa galleggiante uno che non sa nuotare?
Esatto: sempre la nostra Suster, alla tenera età di (qui siamo già cresciutelle rispetto al gatto Biscotto) circa sette anni.
L'altro è mio fratello Ergino, ma qui non ci interessiamo di lui, almeno per ora.
Si tratta del mio secondo gatto. Il gatto che con la sua triste dipartita in giovane età mi spezzò il cuore e mi mise per la prima volta di fronte alla realtà dura e crudele che la vita, ahinoi, non è eterna.
Che ve dovevo dì? Ah, sì: la gatta Fufola, accidenti a lei, è tornata sana e salva, per chi ancora fosse in pena per lei. La bastardella si è presentata fresca come una rosa una bella mattina di qualche giorno successivo all'aggressione notturna consumata ai danni della qui scrivente.
L'inconsolabile Master nel frattempo aveva già pianto irrecuperabili lacrime amare sulla presunta sua scomparsa definitiva, lacrime accompagnate da diversi " Lo sapevo, è colpa mia, non dovevo portarla qui".
Alle quali affermazioni Suster, da esperta gattara quale si ritiene, rispondeva più o meno su questo tono: "Ma no, vedrai che torna. E se pure non dovesse tornare (ma vedrai che torna) tu hai fatto bene a darle l'opportunità di vivere la sua vita come voleva lei".
Ora lo so che questa verità non a tutti può suonare del tutto giusta, ma ecco: io l'ho talmente interiorizzata da esserne profondamente convinta.
Qui mi riallaccio al gattino nero della foto.
Si chiamava, povero lui, Zuppa. In casa nostra, chissà com'era nata quest'usanza di dare ai gatti nomi alimentari. Fatto sta che questo era il nome, malgrado poi lo si scoprì maschietto. Era stato salvato, se ben ricordo, dal motore di un'auto parcheggiata in strada, che aveva pochi mesi, il gatto non l'auto, ché l'auto lo ignoro quanto tempo avesse, e poi adottato da noi, dopo un'assenza di diversi anni di componenti di specie felina all'interno del nucleo familiare.
In quanto maschietto sentì ben presto il desiderio di evadere dall'amorevole prigione che gli era stata di ricovero durante i tempi infami dei vagabondaggi dell'infanzia, e spinto dai naturali richiami di tutto un altro genere di amore, anche lui prese ad assentarsi per lunghi, per me interminabili, periodi, periodi durante i quali la bambina amante dei gatti, soffriva incredibilmente per la sorte del suo amato compagno di vita.
E quindi un giorno, dopo che lui era tornato da una delle sue avventurose assenze con un buco pululento sul fianco destro, che impiegò circa un mesetto a guarire del tutto, pur lasciando ancora per diverso tempo una chiazza spelacchiata in corrispondenza del buco rimarginato, la nostra giovane prende una decisione: basta; tu di casa non esci più.
Ecco il sistema più efficace per garantire l'incolumità e avere la certezza del benessere e della protezione da pericoli di ogni sorta all'oggetto del proprio amore. Ecco come evitare patemi d'animo del tipo torna non torna, stavolta non torna me lo sento, chissà se gli è successo qualcosa di brutto, chissà in che mani è finito, e invece magari torna chissà, ma poi mangia, se la dorme un po' e già vuole di nuovo andare via.
Pensavo che fosse più facile così.
Invece no. Invece mi ritrovai a piangere accovacciata davanti l'uscio di casa a supplicare il mio gatto di smetterla di raschiare la porta e di lamentarsi in quel modo perché mi si strappava il cuore a vederlo così disperato, imprigionato, guardarmi implorante aspettando che gli donassi ancora una volta la tanto agognata libertà, che io, per troppo amore gli negavo.
Una scena patetica davvero, a ripensarci. Ma io ero così: che farci?
Eh eh: salvare capra e cavoli non si può mica. Nemmeno botte piena e moglie ubriaca, si dice, a meno che uno non abbia in casa due botti, o una moglie cui basta un sorso di vino per inciuccarsi. Ma insomma: avete capito, no?
E così ricordo l'intervento di mio padre che mi disse, press'a poco che, insomma: che volevo fare?
Volevo che stesse bene e che stesse con me? Allora dovevo tenerlo chiuso in casa e accettare che lui soffrisse la prigionia, almeno finchè non si fosse abituato.
Volevo lasciare che si godesse la libertà che tanto implorava e che apparteneva alla sua essenza felina?
Allora dovevo accettare la possibilità che forse un giorno potesse anche non tornare, o tornare zoppo, sciancato, malato, moribondo.
E difatti un brutto giorno tornò malato, o avvelenato non saprei dire. E pure se non avevamo in famiglia l'abitudine di spendere vagonate di soldi appresso ai veterinari, all'epoca, ce lo portammo, ma la cosa non fu di aiuto alcuno e il mio gatto ben presto se ne andò... cioè: crepò, e scusate la mancanza di delicatezza nella scelta del verbo, ma fu quello che fece, e io piansi ancora amarissime lacrime e a lungo non mi capacitai che quella creatura che avevo visto viva e capace di aspirazioni tanto simili alle mie, capace di ricambiare i miei sentimenti e di instaurare un rapporto specifico con altri esseri, ad un certo punto avesse cessato di esistere e di far parte della mia vita.
Ma io avevo scelto la seconda opzione: amare e lasciare libero.
E così continuo ancora oggi a credere in questo principio, che l'amore non vada d'accordo con il possesso, che la nostra felicità di avere vicino chi amiamo a volte può non coincidere con la sua felicità, che lasciare libero l'oggetto del nostro amore di realizzare le proprie volontà e aspirazioni a volte può causare dolore e portare conseguenze nefaste, ma anche che non sempre è giusto proteggere l'altro da ogni possibile male, che non sempre è possibile, che non sempre è amore, e che il massimo forse dell'espressione di amore è lasciare all'altro anche la possibilità di venirci sottratto.
Non so se ho sragionato, poichè qui stiamo parlando di un gatto.
Ma credetemi una volta di più se vi dico che osservando e osservando i miei gatti, e riflettendo, ho imparato anche alcune cose riguardo l'essere umano.

Questo post fa parte dell'arcinota rubrica web Roba da gatti, e lo dedico a Owl, che lo sa lei il perché.
E chi volesse partecipare può, come sempre, aggiungre il suo link qui sotto.
Facciamo che potete scrivere il vostro post nel corso di tutta la settimana, entro il prossimo martedì, che così è più facile e meno stressante partecipare alla rubrica.
Comunque se vi dovesse interessare proprio tanto l'argomento "piccoli felini domestici", potete sempre andare a dare una sbirciata nella roba da gatti internazionale: Cats on tuesday.


domenica 26 giugno 2011

Un dipinto per me, per voi.

Ora sono in fissa con questa cosa di "share one day": l'iniziativa è del blog "Mens sana"; Suster a casa di nonna dopo un po' non ha più molto da fare, e i pomeriggi incandescenti diffidano chiunque dal mettere anche solo la punta dell'alluce fuori casa. La pupa dal canto suo è irascibile e nervosa, sarà il caldo, sarà lo scombussolìo di questi giorni, il lettino in terra, la reazione al vaccino ancora non smaltita, chissà chissà.
Qui nella capitale si suda e non si trasuda, si affoga nel proprio stesso sudore, e allora, ammazziamoci di blog, finché c'è tempo, ora che tanti di voi partono per le vacanze e persino la rete si fa un po' più deserta e silenziosa.

Ci ho pensato a lungo, senza venire a capo di una risoluzione. Infine, ci ho pensato troppo, e il tempo è passato, anche l'occasione.
La proposta era: condividere un dipinto "che ci piace, che ci ispira, che ci colpisce ci ricorda qualcosa".
Io e l'arte abbiamo un rapporto conflittuale: la inseguo sempre, ma lei mi sfugge. Scegliere uno e un solo rappresentante per darle voce in mia vece mi ha messo in crisi.
Ma in fondo avrei potuto scorrere il mio blog, fino in fondo, per avere un suggerimento.
Ecco qui, oggi vorrei condividere con voi:

Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni, 1610.

Perché, dite?
Giusto.
Perché in questa Susanna corpulenta che offre allo sguardo dello spettatore la sua florida fisicità e al tempo si schernisce avvitandosi su se stessa con sofferente pudore per la propria nudità mi ci rivedo, mi ci son riconosciuta. Mi fa pure un po' di vergogna mostrarvela così, nuda, perciò, per favore, immaginatela in bikini, se potete.
Perché in un'epoca di perfetto predominio maschile ha il sapore di un grido di rivolta e di sdegno, di una dichiarazione di orgoglio ferito, di intimità violata, di ingiustizia subita, di dignità calpestata, di un torto mai risarcito, di volontà di esprimere il proprio disprezzo per le presuntuose pretese maschili sulla propria persona.
Perché leggo tutto ciò nello scatto nervoso di lei, che volge il viso dall'altra parte, sottraendosi alla vista dei due viscidi guardoni nascondendosi con ambedue le braccia, quasi a volerli, con quel gesto, allontanare, farli sparire dal suo cospetto.
Perché conosco la storia della pittrice, per averla studiata e approfondita, per aver tentato di indagarne le motivazioni profonde, e perché non ho potuto che ammirare un'artista di tal portata, che riuscì ad imporsi in un ambiente allora prettamente al maschile, riuscendo ad ottenere per la sua arte riconoscimenti altissimi.
Perché mi ha conquistato la sua arte, così "maschia" malgrado la forte connotazione femminile, malgrado la scelta dei soggetti quasi sempre muliebri, così cruda, così tragica e grandiosa, così sofferta.
Perché la sua personalità la si rilegge nei suoi personaggi, in queste donne fisiche, concrete, di una sensualità prorompente e piena, tanto lontane dallo stereotipo filiforme della femmina contemporanea, leggera e impalpabile.
Perché ci leggo il dramma della solitudine femminile nella sfida a un mondo che non ne contempla i diritti, i voleri, che non ne rispetta la dignità, che ne calpesta le aspirazioni, che non la considera all'altezza.
E lei invece è giunta fino a noi, intatta, grandissima e forte, di una bellezza indomabile.

Che i produttori di Hollywood la smettano però di ricamarci sopra smielate e inconsistenti storielle d'amore! Per pietà!

Così oggi condivido questo dipinto, in ritardo sui tempi di lancio, come sempre io.
Quindi, anche se l'iniziativa originale è un po' datata, rilancio la proposta: vi va di condividere anche voi un dipinto per voi speciale?

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sabato 25 giugno 2011

Viaggi sognati, programmati, sfumati...

Dove mi piacerebbe andare?
Risposta difficile. Risposta più che scontata: ovunque.
Suster nella sua vita non ha girato molto, e non ne è orgogliosa, non ne è felice, ma nemmeno se ne fa un cruccio troppo grande.
Le occasioni che si sono offerte le ha colte. E' che non ce ne sono state troppe, finora.
Quando non lavoravo, non avevo mai i soldi. Quando ho cominciato a lavorare avevo finalmente i soldi, ma non avevo più tempo per utilizzarli. E' il dilemma cruciale dell'umanità, credo. O almeno di quella fetta di umanità che deve e sa arrangiarsi come può.
Suster non ha girato troppo il mondo però ha almeno due motivi per essere fiera di sé: il primo è che l'Italia almeno, se non il mondo intero, l'ha girata sì, che l'ha girata. E per questo sarà eternamente grata ai suoi avventurosi genitori. Sì, anche per le estenuanti giornate nei musei, che hanno contribuito a fomentare la sua passione per l'arte e per la storia.
Il secondo motivo di orgoglio è che Suster può vantare almeno un viaggio inter-continentale, e che viaggio! Per questo sono invece debitrice al mio lui. Ma ve ne parlerò in sede apposita.

Ora vi parlo invece dei posti in cui mi piacerebbe andare, prima o poi.

Immagine tratta dal web, ovviamente.

Ecco qua. Il primo è questo.
Da quando abbiamo iniziato la nostra love-story, io e il beduino, progettavamo di prenderci questo "anno sabbatico" per girare in lungo e in largo l'America del sud, andando a trovare i numerosi amici che entrambi abbiamo laggiù, sparsi un po' per tutto il continente, dal Cile all'Argentina al Messico.
E' rimasto un sogno, per ora, ma ve lo dico: che io non mi chiami più Suster se un giorno non ci andrò, in Messico. Oh, sì: un giorno andremo in Messico; se pure non dovessi mai riuscire a girarmi tutto il continente latino-americano in moto come il Che, che almeno io riesca a farmi un bell'iter messicano. A costo di girarcelo a piedi e in autostop con gli zaini e la tenda, fare l'elemosina per strada e lavare i piatti nei ristoranti turistici per autofinanziarci.

Foto di repertorio susteriano.

L'ultimo viaggio che avevamo in programma di fare insieme tutti e tre noi, invece era per una meta un pochino più vicina, ma è sfumato per ragioni non nostre.
Doveva essere in febbraio: così avevamo stabilito già da circa un annetto, se non fosse che: in dicembre il beduino ci raggiunge con il treno a Roma, dove io e la pupa trascorrevamo le vacanze di Natale a casa di mia madre. Di ritorno, sul treno, gli fregano la borsa, con dentro i documenti, tra cui il passaporto (qui il resoconto dell'incidente). Pratiche infinite per richiederne una copia all'ambasciata libica,  due mesi di attesa, e infine è pronto, il 17 febbraio.
Quel giorno scoppia la rivolta in Libia, e da lì la guerra che si protrae ormai da più di quattro mesi.
Avete capito dove dovevamo andare noi?
Dovevamo partire il 15 febbraio. Dovevamo andare in Libia. Ma il caso ha deciso che noi non partissimo mai.

E ora un sogno squinternato, immotivato, privato, mio e basta.
Ve lo rivelo: sapete cosa mi piacerebbe visitare prima di lasciare questo mondo?

Immagine tratta dal web.

Dicono che si veda persino dallo spazio. Possibile che io non la debba vedere mai, pur trovandomi assai più vicina, qui sulla Terra?
Mi piacerebbe poter dire di averne percorso almeno un pezzettino.
Chissà poi come nascono certe fissazioni.

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giovedì 23 giugno 2011

A casa di nonna.

Suster e pupa sono a casa della nonna. Materna, ossia mia madre.
Ecco cosa annotare sulla casa della nonna: casa della nonna sta prendendo incontestabilmente l'aspetto di una tipica "casa della nonna", abbandonando piano piano il suo ruolo che per anni è stato quello di "casa mia".
Casa di nonna è sempre pulita come non lo è mai stato quando la frequentavamo noi cinque, da giovanissimi. Il pavimento ha l'aspetto di un pavimento che viene calpestato pochissimo, le finestre hanno tendine di pizzo lavorate all'uncinetto da esperte e anziane mani sarde fraterne (sorerne non si dice, ve'?) e poi spedite oltremare a rifinir finestre ornate di vasi di gerani e petunie. Proprio finestre da nonna.

Casa di nonna, sebbene sia sempre piuttosto a posto, è straripante di ogni sorta di oggetti abbastanza superflui accatastati nel corso di più di una vita, che qui si sono concentrate accavallandosi per diversi anni, accumulando ricordi di vacanze passate assieme, lavoretti infantili per Natale e Pasqua  (Natali e Pasque per diverse generazioni di figli, ma più o meno sempre gli stessi lavoretti), e foto di bambini di tutte le età, infine di bambini cresciuti che non abitano più qui, e che hanno a loro volta bambini, o che vivono lontani e tornano una volta o due l'anno, o che vivono qui, ma ci passano pochissime ore al giorno, e anche quando ci sono non li senti e li vedi poco, perché sono in camera a studiare o a lavorare al computer.
Niente più calci al pallone in casa che vanno a rovesciare suppellettili ornamentali dal valore più affettivo che monetario; niente più briciole di biscotti sui cuscini del divano (anche se ogni tanto sì), niente più urla selvagge alla Tarzan provenienti da sopra, sotto, fuori, dentro; niente più bagni allagati, capanne di cuscini, impronte di scarpe sui muri, calzini sudici agli angoli delle stanze, pennarelli senza tappo con la punta secca, gatti liberi di razzolare su tavoli e fornelli, foglie martoriate del filodendro, intrugli col cibo, gavettoni esplosi in casa, scie di piedi luridi, pozze d'acqua e vestiti fradici sparsi in giro, creazioni artistiche realizzate con banane e creckers, merendine nascoste nello sgabello del bagno, sbattimento di porte e finestre, giocattoli malridotti lasciati ovunque, zaini buttati sotto gli sgabelli o sempre in mezzo ai piedi di chi cammina, asciugamani appallottolati nel bidet dopo esser stati usati una volta.
Ok, niente nostalgia, ma tante, troppe foto alle pareti stanno a ricordare quanta gente ha intrecciato in questa casa tanti anni della propria vita. Le assenze si sono colmate, o meglio, si sono cauterizzate. E al posto lasciato vacante, sempre qualcosa di nuovo: cuscini, vasi, un poco di tecnologia, senza esagerare.
Qualcosa è cambiato, ma gli sgabelli sono sempre quelli lì, da 20 anni o forse anche 30, quelli di legno a incastro, orgoglio del padre di famiglia. E il tavolo, che con le sue cornici concentriche di essenze differenti aggiunte in successione negli anni, sta a testimoniare la crescita della famiglia, che necessitava sempre di ampliare la disponibilità di posti a tavola. E la credenza del bisnonno, con i 40 e più volumi della Treccani. E lo stile naif dell'arredamento di mia madre.

La casa di nonna ha un piccolo giardino traboccante vegetazione e fiori, infestato da zanzare e formiche, un piccolo seminterrato adibito a spazio personale della nonna, dalle pareti completamente occupate da librerie stracolme di libri. Che lei ha letto. Dal primo all'ultimo. E poi lettere, infilate in portacarte e scatole colorate, album fotografici, ritagli di stoffa, materiali da lavoro di ogni tipo, un piccolo organo elettrico scordato rimediato da chissà dove, un assortimento improbabile di sedie provenienti da differenti e scompagnati disimpegni di appartamenti sgomberati, lasciati da amici, parenti o altro.

La casa della nonna trabocca vita passata, e accusa anche un poco il tempo, malgrado i soli 20 anni di vita. La caldaia fa le bizze e nessuno ha voglia o tempo per occuparsene. Gli infissi alle finestre necessiterebbero di essere cambiati, rosi dalle tarme e dalle intemperie (Ah, un tempo le case si facevano per durare! Direi qui se solo avessi almeno il doppio della mia età).
A casa di nonna il frigo è sempre pieno di troppa roba avanzata da finire, del giorno prima e di quello prima ancora. Ah, e poi della cena di quello ancora prima. E la nonna continua a sfornare comunque pizze e rustici, anche se ormai non deve cucinare più per 7 persone ma per 3 o 4 al massimo, e continua a fare la spesa all'ingrosso, comprando pacchi su pacchi di biscottame e casse di latte a coppie di 12. E continua a comprare shampoo e dentifricio della peggior qualità, per risparmiare, anche se potrebbe comprare solo due tubetti anziché 5 e optare per quelli un po' meno orridi come sapore e consistenza... ma vabbé.

A casa di nonna ci sono stanze in cui non dorme più nessuno, dove le serrande non vengono aperte quasi mai. E ci sono stanze con ampie scrivanie a cui non si siede più nessuno, e scaffali pieni di giochi con cui (bisogna che lo dica?) più nessuno gioca da anni, e libri che ormai non interessa leggere più a nessuno, perché già sono stati letti, e qualcuno lo si conosce pure a memoria, e sono quelli più devastati, con le pagine incollate con lo scotch e tutti scarabocchiati.

Questa è ormai una casa di nonna.
E pazienza se la caldaia non funziona e bisogna lavare la pupa nel lavandino a pezzi, mentre lei esclama allarmata "Ahi-ahi" a sentirsi arrivare sul corpo getti d'acqua alternativamente bollenti e gelati.

E pazienza anche se non siamo riusciti a montare il terribile lettino di ferro generosamente offerto da mia zia, che però si è scordata di dirci che era rotto da un lato, e che mancavano le viti e i bulloni, e che quindi montarlo non sarebbe stato mai possibile, motivo per cui la pupa l'abbiamo messa a dormire per terra, sul suo materassino home-made dall'amorevole nonna, in quella che fu "camera di mamma adolescente" e che mi piace pensare possa diventare in un futuro neanche troppo lontano la camera di lei quando verrà a trovare la nonna, dove conserverà i diari segreti nei cassetti della scrivania che un tempo ospitò dizionari di greco antico e studi matti e disperatissimi, ed erediterà le mie ingenue collezioni di gatti e pecore, e attaccherà i suoi poster, e inventerà i suoi giochi.

Per la pupa questi odori, questi bizzarri assortimenti, queste luci e queste penombre pomeridiane, quando si abbassano le persiane per non lasciar entrare la luce forte e, con lei, il caldo estivo, rimarranno eternamente associati al concetto di "casa di nonna", e questo mi piace.

Con lei che scorrazza gattoni sul vialetto del giardino, tra zanzare e formiche, me ne sto seduta culo a terra sulla ghiaia, a vederla raccogliere sassolini che fa il gesto di portare alla bocca, ma che poi, ricordandosi di non doverlo fare, agita nella mano, nella mano che fa "no", andando veloce da destra a sinistra, facendolo finire infine nel vasetto dei sassi, alternativa alla cavità orale offerta con successo dalla mamma.
Soddisfatta dei nostri piccoli successi, le sto dietro mentre si allena, su e giù per la rampa di scale (quattro) che portano all'uscio di casa. Giù e poi di nuovo su. Avanti e indietro, accovacciata e poi in piedi, tenendosi alla mamma e poi da sola, alla ringhiera.
Mi piace sentirla chiamare "Nenne!" e veder arrivare mia madre felicissima di sentirsi così apostrofare, con una fantasiosa variazione sul tema nonna.
Mi piace vederla gattonare entusiasta lanciando acuti mugolii di gioia che le fanno da colonna sonora mentre, ciaf-ciaf, la sento allontanarsi da me nel modo più rumoroso possibile per andare a scovare la nonna in cucina, indaffarata con le sue pizze e i suoi rustici, perennemente in attività, e poi sentirle ridere da dietro la parete una volta che la nonna è stata "sorpresa" da una nipotina dal passo più che felpato che le è arrivata "senza preavviso alcuno" da dietro.
Mi piace vederla entusiasmarsi per il grosso gatto disegnato sulla parete delle scale da una me tredicenne, puntare il dito raggiante e dire "Ga!"; così come mi diverte vederla impegnatissima ad individuare e comunicarci l'esistenza dell'infinità di bestie assortite che affollano la casa sotto le forme più strane: ciotole con sembianza di papere, galline portaoggetti, giraffe ornamentali senza alcuna velleità utilitaristica, presine a forma di ranocchie e via dicendo, tutti oggetti a cui il nostro occhio assuefatto non presta più ormai la minima rilevanza, ma che non sfuggono al suo, attentissimo a cogliere il benché minimo particolare di ogni angolo, di ogni stanza, di ogni palmo di pavimento.

Mi piace pensare a lei qui, negli anni a venire, a immaginare un passato che non le appartiene ma che fa parte delle sue radici, a scoprire racconti familiari che ormai saranno diventati quasi leggende, a ispezionare fotografie sbiadite cercando i tratti di volti noti e facendo congetture su quelli non noti.
Le case hanno questo potere, di rappresentare la continuità, l'unità, la storia. Raccolgono tracce, conservano cimeli, perpetuano i ricordi.
E questo è vero soprattutto per le case delle nonne.

FOTODOCUMENTARIO NOTTURNO DI CASA DELLA NONNA:

Decorazione murale della zona "scale".
Esempio di arredamento naif nonnesco.

Ulteriore esempio di arredamento naif nonnesco.

L'antro della nonna con veduta a volo d'uccello.

Lettino sòla rifilato da mia zia.

Esempio di tipico assortimento mobiliare nonnesco.

Antro della nonna: organo e libreria.

La povera pupa nel suo "letto" di fortuna.

Segnalo questo post di Madamadoré, che mi ha ispirato queste riflessioni.

mercoledì 22 giugno 2011

Dialoghi

Io non sono più abituata al dialogo, ecco.
Rimango spiazzata, disorientata, stordita e, diciamolo, scornata.
Da parecchi mesi a questa parte la mia forma di comunicazione ideale era diventata il monologo.
I miei monologhi giornalieri erano di questo tenore:
- Allora, dai, siamo pronte? Si va? Dove andiamo di bello oggi, Pupetta? Ai giardini, dici? Mmh, non lo so; mi sa che è troppo caldo, aspettiamo un po' che cali il sole, no? Magari facciamo un giretto in bici prima; ti va se mamma passa un attimo alle poste che deve spedire un paio di cose? Così paghiamo la bolletta che è scaduta da tre settimane e vediamo il saldo del conto, va bene? Che poi che lo tengo a fare, solo per pagare le spese di gestione, ché nemmeno mi danno più gli interessi. Poi magari passiamo anche in libreria a vedere se troviamo qualche libretto nuovo, ché quelli tuoi ormai hanno stufato anche te. ma dopo ci andiamo, ai giardini, eh. Vediamo se incontriamo Alice che è un po' che non la vediamo, ti va?

Ecco, ditemi voi se si può vivere così.
Se questa non si chiama personalità dissociata.
Fortuna che ci ha pensato lei a fermarmi, sulla strada che conduce, subdola, alla schizofrenia.

Ecco come il dialogo è tornato prepotentemente e inaspettatamente nella mia vita:

Situazione 1: sul fasciatoio, la mamma è intenta al cambio pannolozzo e dà una sbirciata all'arcata gengivale superiore della pargola.
- Uh, amore! Ma allora è spuntato finalmente il dentino! E guarda, si vede già anche l'altro, e pure il canino!
- Bau bau!


Situazione 2: bagnetto.
- Baba!
- No, mamma!
- Babaaa!
- Io sono mamma, amore.
- BA-BA!
- Ma-mma!
- Baaaaaba!
- Non so cosa tu stia cercando di dire, ma se ti riferisci a me, il mio nome è "mamma".
(pausa di riflessione)
- ... Baba?

Situazione 3: passeggiata.
- Allora stellina, dove andiamo oggi? Andiamo ai giardini?
- ...
- Sì, dai, che così passo pure da Samantha a portarle i vestitini per la bimba. Ti va? Eh, amore? Andiamo a trovare Giulietta?
- ...
- O vuoi andare da babbo? (domanda retorica che presuppone risposta negativa).
- BABA! BABA! BABA! BABA! Baaaaaaaaaaaaaabaaaaaaaaaaaaaaaa!*
Ok, il messaggio è chiaro.

Dovrò riabituarmi alla possibilità di replica. E stare molto attenta a quello che dico, d'ora in poi!

*immaginarsi questa risposta accompagnata da danza a tempo di samba, ondeggiamenti pelvici e indici puntati verso il cielo.

martedì 21 giugno 2011

Roba da gatti. Missing Fufola.

Fufola è scomparsa. A me la responsabilità di questo, tanto per fare una citazione infelice.
E' andata così:
- Suster, Fufola è in calore. Posso portare Panza a casa di Se' per farli trombare?
- Mmh... e perché Panza e non Zorro, scusa?
- Perché Panza mi sembra più bisognoso.
- Ma vedi che ha un soffio al cuore! E se poi i gattini nascono tutti difettosi? E se poi viene stroncato da un infarto durante l'atto?
- Allora porto Zorro?
- Mmh... e va bene: porta Panza. Ma... è che lui è così fifone! Secondo me si stranisce: non conosce la casa, non conosce le persone. Vedrai che non combina niente. Ma scusa perché non porti lei qui? Così se la sbrigano tra di loro, e fai scegliere lei. A te piacerebbe se ti facessero accoppiare con uno che non hai mai visto né conosciuto, se te lo portassero in casa al solo scopo di copula, senza neanche avere possibilità di alternativa?
- Beh, dipende... se fossi una gatta, se mi portassero Panza sarei contenta! E' che qui ho paura che scappi, e poi non conosce la zona e non torna più.
- Seeeeee! Ma dai! E' una gatta! E poi ce l'hai già portata un sacco di volte quando era piccola. Vedrai che qui starà benissimo! Va be', fai come vuoi, che se poi succede qualcosa non mi voglio sentire responsabile.

Ecco, appunto.

La scema di gatta è andata via. E non vi dico i pianti della Master!
Neanche a dirlo, non v'è stato accoppiamento alcuno. Il mio gattume è troppo rimbecillito e non ci sa fa' col gentil sesso.
Lei è rimasta appiattata sotto al letto per un giorno, soffiando al malcapitato di turno tra i due che si trovava a passare di là. Poi ha iniziato a gironzolare per casa e sembrava acclimatata, noi abbiamo allentato la guardia ed ecco qua.

Dopo due giorni Suster esce sul far della mezzanotte per... ecco, se ora ve lo dico passo per la maniaca ossessiva di turno. Ebbene: uscivo per andare a buttare la spazzatura nella raccolta differenziata (a mezzanotte?! Sì perché in previsione del fatto che poi l'indomani, ossia oggi, io e pupa saremmo partite, e rimaste lontane da casa per circa una settimana, volevo evitare di ritrovarmi la spazzatura tale e quale al mio ritorno, in giacenza sul terrazzo tra sciami di formiche e moscerini, con la sua brava pozza di liquame ormai solidificata sulle piastrelle, che per lavarla ci devi andare di acido muriatico, spazzolone e tanto acido lattico nelle braccia. Volevo altresì evitare che nell'organico finissero cicche di sigarette clandestine, nella plastica-vetro-lattine si intrufolassero indesiderate bucce di banana e pacchetti di sigarette vuoti, che nella carta e cartone si accumulassero scottex unti, malgrado le continue delucidazioni da me dispensate sulla modalità di differenziazione. Ma lasciamo stare le mie paranoie ambientaliste e maniacali, che questa parentesi è già fin troppo lunga, e io non sto a guardare le manie altrui, non vedo perché devo giustificare le mie! Ma chi ti ha detto niente, a Suster! Ok, la smetto).
Dunque me ne tornavo verso casa, che ci avevo ancora da preparare il bagaglio per me e la pupa e non so che altri preparativi improrogabili, quando noto un drappello di giuovani assiepati a lato strada-dissestata, ossia quella in cui abitano i nostri eroi.
- Cosa c'è?
Si informa, a costo di passare per l'acida inquilina sospettosa nei confronti di eventuali visitatori malintenzionati.
- Un riccio.
Rispondono.
- Ah, scusate se mi sono intromessa, ma abbiamo perso un gatto.
- Un gatto come?
- Piccolina, rossa bianca e nera.
- Ma è lì, sotto quella macchina.
Fanno i giuovani.

Che culo! Vedi buttare la spazzatura nottetempo serve a qualcosa.
E lì è cominciata l'epopea di cattura della gatta psicopatica di Master.
- Fufolaaaa. Fufolinaaa. Qui Fufi!
Ma Fufi non si muove di un millimetro: sembra sotto shock, è perfettamente immobile, accovacciata sotto l'auto, esattamente al centro dell'area da essa occupata, occhio vitreo e sguardo perso nel vuoto.
Oddio, mi è svalvolata la gatta. Penso.
Mi stendo praticamente panza sotto e tento di arrivare fino a lei. Niente da fare.
Vado a prendere la busta del cibo e tento di attirarla con le lusinghe della gola.
Non funziona. La gatta è apatica e non dà segno di reazione alcuna.
Faccio per ritirare la mano, e nel farlo sfioro una foglia secca in terra che fruscia.
Quella scatta con la zampa come una molla, mi artiglia la mano.
Figlia di una cagna!
Ok, ho trovato lo stimolo: la faccio giocare un poco ancora con la foglia e poi, al momento buono, appena si sporge un pochino di più con la zampetta... zac! Come cacciatrice di gatti, modestamente, ho un certo glorioso passato (sì: di verdure!).
Comunque ce l'ho: l'ho presa, e ora mi sto avviando verso casa con lei sotto il braccio, la busta dei croccantini nell'altra mano.
Com'era il proverbio?
Non dire gatto finché...
La figlia di una cagna, giunti a metà strada, sul vialetto di ghiaia, scatta come se l'avesse punta la tarantola, mi artiglia ovunque: pancia, mani, braccia, gola.
Ma li morté!
Suster non molla, se pure barcolla. Alla fine atterra l'avversaria, la blocca al suolo con la mano, mentre quella lancia urla come se la stessero scuoiando, che si affaccia pure Lia, la mia vicina del piano terra, alla finestra, che mica era la gatta ad essere stata aggredita, ero io, che mi stava dilaniando carni e tessuti epidermici azzannandomi con ferocia, e io pensavo: se la mollo ora col cavolo che si fa ripigliare.
- Cosa fai? Ciao. Come stai? Tutto bene?
Mi chiede intanto Lia, che ha deciso di uscire di casa a controllare che tutto fosse a posto, e vedendomi lì a terra a combattere con la belva assatanata non trova di meglio da dirmi della sua frase standard sfoderata 24 volte al giorno ad ogni nostro incontro vialetto-finestra del piano terra, e a volte anche più di una volta nel corso dello stesso incontro. Lia è così: preme play e parte il "come-stai-cosa-fai-tutto-bene".
- Lia, per favore, puoi andare su a casa nostra e farti dare da Hasuna il trasportino della gatta?
Riesco a proferire mentre quella mi scuoia la mano tra agghiaccianti urla demoniache, e io tento disperatamente di mantenere la presa come Hulk Hogan mentre l'arbitro conta fino a dieci.
Ma la presa non tiene il tempo necessario a permettere alla corpulenta Lia di salire le tre rampe di scale, rintracciare l'oggetto, e tornarsene da basso con esso.
Una distrazione mia e la Fufola è persa per sempre. O almeno per stanotte.
La vedo schizzare via come una lepre pazza e sparire nell'oscurità delle fratte che delimitano i margini del giardino.
La mia mano, il mio braccio, e parte della mia panza (l'emisfero destro, per la precisione) sembra siano stati presi in prestito da un cartografo per tracciarvi sopra la rappresentazione del sistema idrografico groenlandese.
La gatta è ancora dispersa.
Ho una teoria in proposito: la vedremo tornare presto a cose fatte, e il padre non sarà né Panza né Zorro, ma Mister Vattelappesca.
Cara Fufola, te la sei tanto presa perché avevi capito che ti avrei chiusa in casa impedendoti di realizzare lo scopo che ti eri prefissa? C'era bisogno di fare tutto questo casino? Abbiamo svegliato mezzo quartiere, e sarò passata per una sadica seviziatrice di gatti indifesi. Quindi sbrigati a trovare un degno inseminatore, e facciamola finita.
(Diciamo che mi stai pure un po' sulle palle perché ti permetti di schifare i miei gatti quali possibili partner riproduttori. Non sai cosa ti perdi!)

Questo post contribuisce alla rubrica del martedì "Roba da gatti".
Scusate il ritardo di quest'oggi, ma ci si è messo di mezzo un trasferimento di sede con pupa a seguito.
Chi volesse, comunque partecipare segnalandomi il suo post, lo può fare qui.
Per trovare altra roba da gatti su scala internazionale puoi visitare anche Cats on tuesday.

Questa settimana, roba da gatti di:
1. Mamma e Mimma  
2. Emily  
3. Ladoratrice

lunedì 20 giugno 2011

Foto-diario pupesco dell'undicesimo mese.

Peee perepeeé perepé perepé perepé perepeppepepééé!
Attenzione: sto per cimentarmi nella mirabolante impresa senza precedenti, di caricare in contemporanea un numero di foto mediamente ridotte, compreso tra le 25 e le 30, con oscillazioni del caso. Se questo maldestro tentativo dovesse comportare il definitivo collasso di questo blog, o l'esplosione a catena delle componenti hardware del mio povero malcapitato portatile, lasciate un fiore per me sui vostri. Grazie.
Ecco a voi... la prima, irresistibile, inimitabile foto-story delle rocambolesche imprese della pupa nel corso del suo undicesimo mese di vita! Yeaaaah!
Vi ricordo che la pupa ha compiuto 11 mesi alla mezzanotte meno due minuti di ieri notte, ufficialmente il 18 giugno. Undicesimo pupa-day, in gergo.
Siete pronti? Allacciate le cinture?
Si parte!

Le conquiste della pupa in questo mese.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...

 ... ha sperimentato una full-immersion alle 5 del mattino nella sua scatola dei giochi. La mamma era una zombie, ma da brava reporter non ha mancato di documentare.
Prima massima di vita della pupa: nella vita l'importante è seguire l'ispirazione del momento. L'occasione potrebbe non ripresentarsi.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...

 ... ama sollazzarsi con i giochi acquatici; ha scoperto le gioie nascoste di un bidet.
La pupa prende nota che se mai le vicende di sua vita futura la dovessero portare a condurre la propria esistenza in qualche paese del nord-Europa ove sia invalsa la curiosa abitudine di non possedere in casa tale fondamentale oggetto di igiene personale, ella se ne procurerà uno, costi quel che costi.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


 ... collabora suo malgrado alle bislacche iniziative della mamma, che nell'undicesimo mese di sua maternità sta vivendo un pericoloso momento di dipendenza da un certo genere di mezzi di comunicazione virtuale, i quali le mettono addosso strane e preoccupanti manie e la spingono a compiere azioni difficilmente spiegabili.
La pupa prende nota sul tema "innesto": assecondare a volte è meglio che curare.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... sperimenta il gusto della frutta di stagione.
La mamma prende nota: tacere di fronte al dottor Z., e, in caso di controffensiva, negare sempre, fino all'ultima ciliegia.
La pupa fa tesoro: insistere nelle proprie legittime pretese con tenacia e decisione a lungo andare porta alla vittoria.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... intraprende lunghe ed impegnative letture solitarie.


Primi tentativi di manipolazione psicologica materna: "Prima o poi si impietosisce e viene a leggermeli lei".

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...

... non ha ancora capito quale sia il verso giusto del ciuccio.
La pupa prende nota del fatto che: nella risoluzione di un problema pratico, un verso vale l'altro, basta che funzioni.
Ammissione di intenti della mamma: la foto è stata scelta in virtù del fatto che si vedono bene i suoi occhioni dal taglio orientale di principessa de Le mille e una notte, le lunghe ciglia nere arcuate, che lei, la mamma,  se le sogna, avercele così, e le deliziose orecchie elfiche a punta.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...

 

... ha provato l'ebbrezza del suo primo tubo.


La pupa prende nota: finché si vede mamma dall'altra parte si può sempre uscire dal tunnel.
Appunto della mamma: ai miei tempi questi giochi fighissimi non c'erano. Solo lo scivolo di lamiera rotto che ti affettava le cosce e le altalene di ferro che si arroventavano d'estate.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... sceglie da sola la musica che vuole sentire.
Annotazione della pupa: cara mamma, metti questo così almeno smetti di cantare (ho finalmente scoperto come farla stare zitta!).

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... sfida impavida le spine di Ahi-ahi.


Sfida impavida le spine di Ahi-ahi e la forza di gravità.
Teorema della pupa: se devi fare qualcosa di rischioso e potenzialmente doloroso, falla nel modo più difficile che conosci.
Corollario della mamma: pupa, poi non venire a piangere da me.


La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...

... ha scovato l'antro delle meraviglie, e mo' chi ce la leva più?
Pro memoria della pupa: ecco dove tengono la roba buona. E a me continuano a propinare quelle pappine insipide!
La pupa prende nota: se vuoi qualcosa che ti soddisfi, procuratelo da sola.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... adora rotolarsi sulla sabbia,


e trova che sia anche alquanto gratificante mangiarla,


peccato che impasti un po' troppo la bocca.
La pupa prende nota: quel che non ammazza ingrassa.


Riflessione della pupa sui grandi: ma se poi non me la fate neanche mangiare, che mi ci portate a fare?
La pupa è in vena di citazioni: non ti curar di lor, ma guarda e passa.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... ha scoperto che al mondo esistono tanti tipi di ahi-ahi. E che non sempre conviene assaggiare tutto.


Concessione della pupa: se proprio ci tieni, mamma, te lo do, ma tanto vedi che non ci si riesce a metterlo in bocca. La pupa prende nota: non dare mai a vedere che te ne disfi perché non sei riuscito ad averla vinta su di lui (la dignità nella sconfitta).

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... dimostra di provare un certo interesse per gli hobby materni,


e continua a nutrire una passione smodata per le mollette.
La pupa prende nota: la molletta è una gran bella invenzione.
La mamma si scopre: e ci voleva la foto con il vestitino!

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... passato il momento delle pecore be-be è in piena fase di ossessione per le rane cra-cra (chissà chi le avrà messo in testa certe fissazioni).
La pupa non ha niente da annotare in proposito.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... ha imparato a giocare con le costruzioni senza disseminarle per casa in preda all'ira per non essere riuscita a farle combaciare.


Lezione di vita della pupa: con la pazienza si può venire a capo di tutto.
Tra parentesi della pupa: quindi, se ho capito bene, la parte bombata va sopra...


E ogni cosa ha il suo posto.
La pupa trae le conclusioni: decisamente, è più facile rimetterli nella scatola.

La pupa nell'undicesimo mese di sua vita...


... ha fatto il suo primo bagno in mare!
La pupa prende nota: il mare non è climatizzato.


La pupa è fedele a se stessa: ogni cosa va assaggiata. E il mare non fa eccezione.


La pupa prende nota: il mare non ha un buon sapore.


Decisamente, il mare non ha un buon sapore.
(Ma allora, era il caso di farne così tanto?)

giovedì 16 giugno 2011

Profumo d'estate: gelsomini

foto presa in prestito dal web

Oggi sarebbe l'ultimo giorno utile per partecipare alla rubrica del giovedì sulla primavera ( "Una stagione: la primavera" di Kosenrufu Mama). Purtroppo non ho foto adatte allo scopo, complice la lunga inattività della mia reflex.
La stagione è ormai agli sgoccioli, le foto di qualche settimana fa mi sembrano tremendamente inattuali; ieri pomeriggio Google mi ha informato che qui si registravano i 30°C, e credetemi: si sentivano tutti.
E quindi, mentre io continuavo a cercare in giro i colori della primavera, l'hibiscus è fiorito e sfiorito e anche l'echinopsis... beh, che c'è? Non sapete cosa sia un echinopsis?
Ma ragazzi, dove vivete? Va be', solo per voi, lo chiamerò volgarmente "cactus".
Dunque l'echinopsis, volgarmente definito "cactus", a casa nostra è anche detto "ahi-ahi"; fiorisce al principio dell'estate, normalmente: dei meravigliosi fiori rosa dal delicatissimo profumo che lui spara verso il cielo su lunghi steli spinosi, affatto armoniosi. Durano una notte, e il giorno dopo appassiscono di già. L'emblema stesso della fugacità della bellezza.

Il gelsomino invece no. Tecnicamente detto "rincosperma", non può certo vantare un nome poetico: chi di voi gradirebbe essere chiamato rincosperma? No, dico, a sentirlo si direbbe un'apostrofe non troppo gentile ("Rincosperma, vieni qua!"). Fortunatamente non è permaloso, dato che il nome gli è stato affibbiato da quegli intelligentoni di botanici, se lo tiene, ed ama farsi chiamare comunemente "gelsomino".
E' modesto, piccolo, fa del numero la sua forza, ma non si nasconde nel branco. Malgrado le dimensioni minute, il piccolo fiore sa emanare un profumo intenso e penetrante, che io associo in maniera indissolubile alle notti estive.

E così l'altro pomeriggio, pedalando sempre con la pupa infilata nel suo seggiolino sul manubrio, veniamo inondate da questa ventata di estate, ed io lo riconosco, e sussulto: gelsomino!
E' fiorito il fiore della mia bambina, il piccolo gelsomino impertinente.
Il fiore della rivolta, che quest'anno è divampata sotto il suo nome dal nord-Africa al Medio-Oriente: la rivoluzione dei gelsomini, la chiamano.
Prendo in prestito questa dal web, perché per me il gelsomino rappresenta bene questo passaggio, l'ingresso della stagione calda, le notti insonni sulla terrazza a prendere una boccata d'aria, diventando i nostri corpi festino per le zanzare, già in discreta attività da metà marzo quaggiù.
I gechi che gironzolano sul muro, attorno alla lampada,  a caccia di prede, i pomeriggi incandescenti, ad attendere che cali un poco il caldo per poter uscire di casa.

Iniziamo a congedarci dalla primavera, avvolti dal profumo del gelsomino.

Vi lascio con il curioso echinopsis.


PS
Anche se non partecipo alla rubrica con questo post, lasciate che raccolga qui tutti i miei appunti "primaverili" di quest'anno:
Una stagione: la primavera #1
Una stagione: la primavera #2
Una stagione: la primavera #3
Una stagione: la primavera #4
Una stagione: la primavera #5
La mer au printemps