mercoledì 16 gennaio 2013

Benritrovato signor Kandinsky.

Ci eravamo incontrati una prima volta su altri suoli, in terra iberica, e svariati anni ed ere biografiche fa. Ere biografiche intese come della sottoscritta, ché il signor Kandinsky all'epoca l'era già bello che defunto.
Rimasi fulminata dalla rivelazione, allora.
Ammetto che malgrado il mio stato di studente in Scienze dei Beni Culturali impegnata nel popolare progetto-studio Erasmus, gli anni di preparazione liceale in Storia dell'arte e i numerosi esami universitari già accumulati alle mie spalle, il fascino dell'astrattismo continuava a sfuggirmi, o forse semplicemente a non toccarmi minimamente. Ero inchiodata all'iconicità visiva.
Del resto è una cosa abbastanza comune, anche tra i laureandi e i laureati in Storia dell'arte che in seguito ebbi modo di conoscere.
Qui in Italia l'arte contemporanea non ce la insegnano come si dovrebbe.

Magari, oltre alle teorie astruse che trovi su alcuni manuali e sui saggi universitari su questo o quell'artista, corrente o avanguardia che ci condannano a digerire, sarebbe il caso che ci insegnassero a capirla, penetrarla, capirne gli intenti, le movenze, gli obiettivi profondi, calarci nello spirito di chi le diede vita e nel suo strenuo impegno nella ricerca, la tensione verso l'espressione e l'inesprimibile, e l'arte che fa da ponte tra le due cose. Sempre che sia una cosa che si possa insegnare a fare.
Ma no: si finisce per inaridire tutto nel "concetto", nella banale affermazione che "l'arte contemporanea è più concettuale che operativa". Mah. Che vorrà dire.

Ma torniamo a noi: a me e al signor Kandinsky, che all'epoca conoscevo bene o male solo attraverso i volumi di studio e le riproduzioni stampate delle sua opere formato libro di testo.
Avevo anche imparato cosa volesse dire "astrattismo": sì, va be', bla bla bla, liberare la forma, sganciarsi dalla figuratività, arte emozionale.
Ma ecco cosa accade, poi: ti ritrovi i un luogo, una galleria, all'interno di un "percorso", ti ritrovi a ripercorrere letteralmente i passi di quell'uomo, di quell'artista, alla ricerca della "sua" forma d'arte, in culo a tutte le convenzioni, alla spocchia dei critici sapientoni (immaginiamoci un Vittorio Sgarbi dei tempi) e degli abituali frequentatori dei saloni dell'arte europea; ti si parano davanti i dipinti, nella risucchiante vitalità delle loro proporzioni reali, della matericità dei loro colori sulla tela, ingoiata dagli spazi e delle dimensioni create da quelle linee intersecantesi, da quelle macchie di buio, da quelle esplosioni di luce, come zone di esistenza reale, e allora capisci che tutto quello che avevi messo da parte fino a quel momento nella tua personale scatola del sapere, non vale gran che, di fronte all'evidenza dell'esperienza visiva, che l'arte è lì, e non sui libri.
Così conobbi il signor Kandinsky, poiché durante la mia permanenza in Spagna ebbi modo di visitare un paio di mostre dei suoi dipinti, davvero ricche e ben allestite, e l'entusiasmo della mia gioventù da viaggiatrice in terra straniera corredò il tutto, di quell'incontro rimasero emozionanti ricordi, molto nitidi, oltre a un paio di poster e diverse stampe acquistati al book-store delle mostre.

Ci siamo rivisti ora, che lui è venuto a trovarmi nella mia città di vita, portando nella mia realtà un campione di quella che fu la sua, di vita, o almeno della parte della sua vita che rivolse al mondo, e al tempo dopo di lui, la sua arte. E io. Che non sono più la smaniosa studente fuori sede proiettata verso il proprio futuro, ma la mamma panzona, tutta concentrata sul proprio presente, che ogni tanto si adagia in qualche reminiscenza di passato prossimo.
Potevo perdermelo?
Beh, sarei anche stata capace, vista la mia rapidità di azione (la mostra rimarrà aperta ancora fino ai primi giorni di febbraio), se solo non avessi ricevuto in dono per il mio compleanno (oramai trascorso da diversi mesi), due biglietti per la mostra di Palazzo Blu:

Wassily Kandinsky. Dalla Russia all'Europa.

E' sempre lì che allestiscono annualmente, da qualche anno, percorsi espositivi sui principali protagonisti dell'arte del '900.
Dovevo riscattarmi, ché l'anno scorso il mio viaggio in Libia mi costò la perdita di Picasso, e la mia ultima velleità di mondanità culturale risaliva a quella mostra di Mirò a cui mi recai con una Mimi di pochi mesi appena, come raccontai qui.

E così si va, io e la Master, come sempre.
La pupa no che stavolta non me la sono portata, un po' per timore che non si tramutasse in strazio per entrambe, e un po' per così detto sano egoismo, ché quello volevo fosse a tutti gli effetti un momento "mio".


Che dire? E' stato un po' come ritrovare una vecchia conoscenza, in un certo senso. Ed ebbi l'impressione che il pellegrinare dell'artista, dalla capitale russa alle steppe siberiane, alle accademie di Monaco e ai salons di Parigi, non si sia arrestato con la sua morte, ma prosegua, inarrestabile, moltiplicandosi, e spandendo suggestioni ancora per noi indefinibili tra i suoi visitatori, comparse occasionali o vecchi affezionati frequentatori...

E lui comunque ha continuato a stupirmi.
Sì perché io questo aspetto fiabesco, folklorico e onirico assieme della sua produzione non me lo ricordavo affatto, ed è stato un po' come ricollocare tutti i tasselli al loro posto, ché uno si chiede a volte: ma questo qui com'è che è uscito a farsene dipinti astratti? Così, dal nulla, tanto per rompere con la tradizione della sua epoca?

E invece manco per sogno: la tradizione è nella sua arte, e la sua arte si colloca volutamente nel solco della tradizione della sua terra, rievoca le sue leggende, scava nella sua memoria popolare, recupera i suoi motivi iconici, e li trasporta in un presente dell'arte che ha cambiato destinatari e movente, che smania per rinnovarsi nelle sue forme e nei suoi mezzi di espressione, ma non può, non vuole sganciarsi dalle sue radici.

Mi sono innamorata di queste pitture su vetro che hanno l'autenticità e la suggestione di un racconto orale, udito per bocca di una vecchia contadina seduta davanti al samovar della sua umile izba, che tanto affascinò il pittore quando vi entrò, la prima volta.
Amo la grazia sospesa dell'Amazzone sui monti, l'atmosfera magica della Nuvola dorata, di quel paese arroccato che sembra voler scivolare giù dal pendio ripido della montagna, azzurra, stagliata nella luce, contro un cielo livido.


E poi mi son chiesta da dove venisse la forza di quella Macchia nera, che sembra attirare verso di sé lo sguardo di chi osserva, e ingoiare tutto l'allegro caos di colori e visioni circostanti nel buio di un sonno privo di luce. O è forse il contrario? Non è forse la realtà tangibile che l'artista aveva intenzione di racchiudere in quella voragine pulsante al centro del quadro, contro l'infinito immaginifico potenziale della mente umana?


E sempre più mi convinco che solo osservando, guardando, si può davvero "capire" quale sia l'intento, quale il messaggio dell'arte.
Solo così riesco a comprendere lo sforzo dell'artista per tradurre nel linguaggio pittorico le sensazioni che un brano musicale riesce a veicolare e a far erompere nell'animo umano senza l'ausilio di alcun contenuto narrativo. Tonalità cromatiche come quelle acustiche, pause di vuoto come silenzi, come in questa Composizione in bianco.
Come quando vi esaltate per una canzone di cui non capite le parole (magari in inglese, toh!) e quando finalmente riuscite a procurarvi il testo e a tradurlo, rimanete un po' delusi, e un tantino contrariati per la sua pochezza e per l'impoverimento delle suggestioni che quelle note prive di senso riuscivano a suscitare in voi prima.


Così il signor Kandinsky poneva al primo posto della sua personale scala di importanza di un'opera l'improvvisazione, che più dell'impressione (pensiamo ad un dipinto impressionista), e più ancora della composizione (pensiamo a un Raffaello) riesce a veicolare verso il destinatario il messaggio dell'autore, le suggestioni che egli aspira ad esprimere, al di là di qualsiasi indicazione soggettuale.

Ecco perché questo dipinto si chiama semplicemente Due ovali, ma a me suggerisce un senso di cosmico, di completezza, di inizio e di conclusione ancestrali, di unità tra gli elementi, il mondo sensibile, la realtà intangibile, le pulsioni sotterranee: tutto vortica insieme nell'azzurrità di un universo instabile e poliedrico, informe e poliforme come lo sono le suggestioni, i pensieri, i sogni, tanto lontano da quel mondo geometrico e analitico, scomponibile in visuali contrapposte dell'astrattismo cubista...

Ecco come vorrei spiegare questa arte a Mimi, senza pretendere di salire in cattedra, che non mi riesce perché so di avere immense lacune in merito, perché so di lasciarmi andare a sproloqui emozionali, più che basati sullo studio approfondito delle teorie pittoriche.
In fondo era ciò che faceva dire allora ai critici del movimento Der Blaue Reiter che questi artisti "deliravano con il pennello" più di quanto non facessero già nei loro scritti teorici.

E' che l'arte può servire anche a far delirare, non solo a far pensare.

Mi chiedo perché questa cosa non sia stata spiegata ai due gruppi di bimbetti di, forse 5-6 anni che abbiamo incrociato durante la nostra visita.
Sono rimasta molto colpita dall'aver trovato alla mostra gruppi di scolaresche così in erba, e siccome ero anche molto curiosa di vedere come le insegnanti presentassero loro l'opera del signor Kandinsky, mi sono fatta i fatti loro.
Ecco cosa ne ho tratto: le maestre continuamente intimavano ai bambini il silenzio, ché se no disturbavano gli altri visitatori. Manco si trattasse di questi appassionati intellettuali d'arte (gli altri visitatori intendo): per lo più se ne stavano tutti sbracati chi qua chi là sui divanetti, intenti ad ascoltare nei loro citofoni-audioguide.
Io per la verità sono rimasta assai più infastidita dalle ripetute ramanzine rancide delle maestre che dal chiacchiericcio eccitato dei bimbi, e così ho buttato lì un "Fanno più casino le maestre dei bambini", rivolto alla mia amica, che però mirava ad essere sentito dalla diretta interessata, che aveva appena sgridato la classe con una frase tipo: "Ma ché, non vi portano in giro i vostri genitori? Pare che non sapete come ci si comporta in pubblico. Qui non siete mica a casa vostra!"

E' vero: io non so cosa significhi tenere a bada una scolaresca di una ventina di bimbi così piccoli senza incorrere nelle lamentele dei presenti, ma sono ben memore di mortificazioni verbali analoghe ricevute a mia volta nel corso delle gite scolastiche della mia infanzia; a ben vedere queste ramanzine hanno più lo scopo di mostrare ad eventuali presenti come le accompagnatrici si profondano per il rispetto della disciplina dei loro assistiti, che di indirizzare davvero i piccoli visitatori all'attenzione e all'osservazione.
Ma allora, mi chiedo: perché non riservare alcune mattinate della mostra esclusivamente alle visite scolastiche? Potrebbe essere una parziale soluzione del dilemma.

Che poi non dev'essere semplice per un bambino così piccolo visitare una mostra come quella, capire il perché di quei dipinti senza senso apparente.
Ma se decidi di portarli, se lo fai, devi sforzarti di più.
Non puoi limitarti a dire, di fronte a ogni nuovo dipinto: "Allora, bambini, qui cosa ci vedete?"
Primo: se all'inizio può essere un buon approccio all'assenza di appigli figurativi, alla lunga il gioco diventa monotono e ripetitivo, e stanca (persino me, figuriamoci loro).
Secondo: non è affatto questo il senso di quei dipinti, cazzarola!
Vuoi spiegar loro che un quadro può anche voler rappresentare solo emozioni, sogni, sensazioni, e non per forza oggetti?
Perché credi che non possano capirlo?

Non è che io ce l'abbia con le maestre come categoria, per partito preso, ma mi incazzo quando mancano di rispetto ai bambini, quando li umiliano in pubblico.
Io credo che i bambini abbiano possibilità di accesso all'arte assai più facilmente di noi: sono più intuitivi, più liberi da preconcetti e nozioni acquisite. Basterebbe saper loro spiegare non ciò che hanno davanti, ma in che modo, con che spirito ciò che hanno davanti va guardato.
Ecco: ci tenevo a dirlo.

Nelle sedi del Palazzo Blu è ospitata in concomitanza della mostra a pagamento anche un'altra mostra, indirizzata ai più piccoli, appunto: Il signor Kandinsky era un pittore.

Meditavo di portarci Mimi... Chissà.


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