martedì 23 settembre 2014

Sera del dì di festa.

Immagine rappresentativa domenicale.
Un'altra domenica è passata, e a dire il vero anche un'altro lunedì, ma non posso far altro che aspettare le ore più tarde del giorno, quando la mente è lenta e le membra stanche, per riordinare un po' certi pensieri che mi vengono durante i miei giorni con le bimbe, e se non mi addormento con loro, raccogliere e sviluppare quei pensieri diventa sempre più faticoso e difficile, e rischio di scontarlo con una bel collier di occhiaie livide e  flaccide sotto ciascun occhio per giorni e giorni a venire.
Le domeniche continuano ad essere una dura prova, ma sto imparando a gestirle.
Prima o poi passano anche loro, ed è già lunedì: dopo il prima sveglia-lava-e-vesti-corri-a-scuola la sera siamo tutte e tre talmente lesse che già sono in attesa di un nuovo sabato per recuperare.


Finché il beduino era qui le domeniche erano l'occasione per farci un giretto in macchina fuori città. Che si andasse verso il mare o verso i monti si finiva sempre con loro che si addormentavano in macchina, io mi estraniavo a guardar fuori dal finestrino, e la sera rientravo soddisfatta di aver trascorso una giornata di quelle che servono a cementare quel senso di famiglia, sufficientemente rilassata perché delegavo a lui l'aspetto logistico della faccenda, contenta di aver in qualche modo cambiato anche aria.

Ora che lui è lontano accuso un poco la sindrome del dì di festa, quando il poeta pronostica tristezza e noia recate dal passar delle ore, aggravate eventualmente da crisi di isteria infantili, e quel senso amaro e asciutto di desolazione nel ritrovarti tu sola adulta a dover fronteggiare le une e riempire le altre (le ore) di attività degne di essere rappresentative di quel nostro dì di festa, perché possa essere comunque un giorno speciale in cui sottolineare quel senso di famiglia che prima era dato dallo stare insieme tutti e quattro, perché una volta ci fu imposto il comandamento più faticoso forse di tutti, quello di onorare le feste, che mai è stato più difficile che quando lo misuri sul metro del loro entusiasmo, dei loro sorrisi e del loro tornare a chiederti nei giorni a venire "quand'è che ci porti ancora... (luogo di volta in volta deputato allo svago domenicale)".
Insomma, io a metter su ragnatele in casa una domenica intera non ci posso proprio stare, mi salirebbe un magone acido e rancido che poi per osmosi trasmetterei a loro, e loro a me, viceversa, perché in fondo credo di aver già instradato entrambe a questa irrequietezza quotidiana, ché se non passi almeno un'ora del tuo tempo in un luogo diverso dal pavimento domestico ti sembra di non aver messo a frutto l'intera giornata, di essertela macinata così, tra le quattro mura note, le tue preziose ore di luce che non torneranno.
E così io mi invento domeniche, per evitare che salga quella malinconia pomeridiana, di ora in ora con l'avvicinarsi dell'ora del crepuscolo, e perché a loro rimanga quel senso dell'aver fatto qualcosa di diverso, e di speciale, perché a loro rimanga in bocca e in testa l'idea del dì di festa da celebrare.

A volte sbaglio un poco il tiro, miro troppo in alto, e mi imbarco in imprese titaniche che mi succhiano anima e midollo, e ritorno distrutta a notte inoltrata che ancora, colpo di grazia, ho le due figlie dormienti da caricarmi su per due rampe di scale a turno, e metterle a letto, come quando mi sono incautamente lasciata convincere da amici a recarmi alla festa Medievale, dai su, che figata, vedrai le bimbe come si divertono, e mi sono sciancata con Rania perennemente a caval d'anca, o arrancando col passeggino sghembo su per viuzze inerpicate e sconnesse facendomi strada a gomitate e ruote negli stinchi tra un'umanità domenicale e godereccia, affamata di sperperi in futilia, e recuperando ad ore poco consone l'auto parcheggiata diversi chilometri prima dell'ingresso in paese, perchè ovviamente l'intera Provincia quel giorno si è riversata sulle stradine del delizioso borgo medievale parato a festa e tu hai trovato posto per puro miracolo, quindi avoglia a trottare.

La scorsa settimana invece ho deciso di portare le bimbe al così detto "Museo di Marianna", dal nome della mia amica che fino a qualche anno fa ci lavorava, onde per cui Mimi la ritiene tuttora e a tutti gli effetti titolare della struttura. Trattasi del museo di Storia Naturale della splendida Certosa di Calci, dove già in passato più volte portai Mimi sola, e l'ultima volta ci andammo per l'appunto l'estate che io ero incinta di Rania, in una fuga disperata dal caldo assassino della città. Di quelle gite ricordo una Mimi di appena due anni scorrazzare entusiasta e felice per le grandi sale, un po' cupe, per la verità, popolate da grandi animali impagliati. La cosa stavolta è stata assai più faticosa di allora sia dal punto di vista meramente fisico (la piccoletta qui mi sa che ha una minor propensione per la deambulazione autonoma, o forse era solo stanca dall'aver dormito una scarsa mezz'ora di macchina, evidentemente insufficiente alle sue necessità mattutine) che da quello dialettico, visto che stavolta la presenza del bestiario mummificato in vetrina ha dato adito alla solita sfilza di quesiti etici da obiettrice di coscienza, senza contare l'impatto terrorifico delle scene cruente di lotta tra cani e cinghiali, tra cani e lupi, e soprattutto del terribile condor divoratore degli occhi del povero asinello morto, su entrambe le figlie.

Ieri assediate da un'afa tardiva e inaspettata malgrado l'ufficiale ingresso della stagione autunnale fosse scoccato giustappunto quel dì di festa, e orfane di un invito a festa di compleanno rimandato poi per malattia della festeggiata, decido di portare le bimbe un po' sul lungomare, a passeggiare e non sia mai lo iodio marino possa far bene anche ai loro bronchi catarrosi, reduci di recenti malanni.
Mentre mi avvicinavo alla meta, oltre a constatare che le mie due passeggere si erano ovviamente accasciate inerti nei loro seggiolini, prive di coscienza per un attacco sincrono di narcolessia da viaggio, notavo anche sinistro addensarsi di nere nubi da temporale, che non mi lasciavano presagire nulla di buono.
Come Willy Wonka mi perdo nei miei flashback di una giovinezza non troppo remota, e ricordo allora dell'ultimo viaggio che intrapresi in bicicletta proprio sui lidi di quel mare, all'epoca in cui forse ancora lavoravo al ristornate e improvvisavo scappate diurne in spiaggia per poi rientrare in serata e attaccare il servizio. Avevo questa abitudine un po' folle di farmi grandi pedalate di un tre quarti d'ora buoni, a ritmo abbastanza serrato, fino al mare.

Allora, quando arrivavi, sudata e accaldata dopo la tanta strada, e proprio sul punto di stramazzare al suolo, che proprio eri sicura che se avessi fatto anche solo due metri di più saresti morta, eccoti lì, sulla riva, spogliarti in fretta e tuffarti nell'acqua fresca, sentirti rinascere e leggera, mentre le tue tempie smettono pian piano di pulsare, e ne era valsa la pena anche solo per quel primo istante di impatto refrigerante col liquido salino, dove il tuo sudore si lavava via e tu, se non ti veniva subito una sincope, uscivi rinata come Venere sorgente dalle acque, i glutei induriti e doloranti che manco la statua di marmo della stessa Venere che reminiscenze classiche mi suggeriscono chiamarsi anche Callipigia, ovvero proprio "dalle belle chiappe".
Comunque accadde che una volta arrivando dalla litoranea io vedevo proprio addensarsi questi nuvoloni minacciosi verso il mare, ma senza volerci far caso, continuai imperterrita a pedalare.
Giusto in tempo di arrivare sul lido e legare la bicicletta a un palo che iniziarono a riversarsi su di me secchiate e secchiate d'acqua, mentre in cielo scoppiava un finimondo di bagliori e tuoni da aver paura. E infatti dalla paura slegai la bici e iniziai a  pedalare indietro sotto rivoli d'acqua che non ci vedevo a un metro e mi tenevo tutta a destra della strada terrorizzata di venir scrafazzata sull'asfalto da qualche automobilista in fuga dall'uragano.

Questi ricordi un pochino mi allarmavano, mentre trasportavo verso il mare il mio carico di figlie dormienti nei loro seggiolini.
Ma poi arrivata alla marina, parcheggio un po' in disparte, in una via laterale tra il porto e il lungomare, aspetto un poco senza svegliarle e guardo il cielo aprirsi, e il sole invadere tutto di luce, una luce densa e dorata, di una stagione al declino.
Abbiamo trottato in mezzo alla carreggiata del lungomare chiuso al traffico domenicale, tra schiere di passeggiatori domenicali che come noi non avevano di meglio da fare che percorrere in su e in giù il lungomare di Marina.
Mimi era in groppa al suo fedele Bizza, il cavallo-bicicletta a due ruote senza pedali, che si chiama così perché fa sempre quel che cazzo gli pare, così sostiene lei quando io mi incazzo perché la devo rincorrere per chilometri urlando il suo nome come Tom Hanks quello di Wilson, mentre lei prosegue, sorda ai miei richiami, proprio come Wilson finché non scompare alla mia vista nel'orizzonte color arancio.
Abbiamo liberato il mollusco di Mimi, un bivalve da lei raccolto in spiaggia una mesata fa, e amorevolmente conservato all'interno di un secchiello rotto raccattato anch'esso in spiaggia, fino alla sua totale decomposizione con tutta la puzza che ciò può aver comportato.
Comunque finché non lo avessimo liberato lei non si sarebbe data pace, invece così, restituendolo al mare, le ho spiegato, il mare ne avrebbe fatta nuova vita.
Così ho anche potuto rispondere al suo interrogativo sul perché la vita si distrugga attingendo senza vergogna al mio esiguo bagaglio culturale dicendole che in natura niente si crea e niente si distrugge, ma tutto si trasforma.
Ovviamente la risposta di lei è stata: "Mamma, a volte dici proprio delle sciocchezze!"
Esaurita la missione mollusco c'è uscito pure un gelato a tre, di quelli che non fai in tempo a dire "Ge" che è già tutto colato giù per la cialda del cono e giù sulla tua mano e sul braccio fino al gomito, ché s'era alzato un vento intanto che non vi dico e la cosa pare aiuti il gelato a sciogliersi più in fretta, se mai ce ne fosse bisogno.

Intrise di cocco e nocciola dunque ci avviammo gloriose al recupero della nostra auto, dopo aver tirato ciottoli contro il mare, dopo aver raccattato alghe verdognole che erano chiome di sirenette prigioniere della strega cattiva, dopo aver sostato a lungo sedute sugli scogli piatti in contemplazione del mare, o forse di noi stesse, e mentre mia figlia, quella grande, mi sviolinava dichiarazioni d'amore sul mio essere la mamma più bella e buona di tutte quelle del mondo, e anche delle mamme sirene, mi mettevo alla guida e avevo l'ennesimo flashback della giornata, di me sul sedile posteriore dell'auto di mio padre, bambina, di ritorno da quegli interminabili pomeriggi di gioco domenicali a casa di mio cugino, stanca e felice dell'eccezionalità circoscritta della giornata trascorsa, lasciarmi portare per i dedali scuri delle strade della città, sdraiata supina su quel sedile, senza guardare la strada, quella sicurezza di sapere che tanto lei, la strada, ti avrebbe portato a casa, navigare come in un mare di luci e fanali, e sagome di palazzi e piano, piano, addormentarmi così.

Sirenetta in autocontemplazione consapevole. 
La liberazione del Mollusco

Lancio di leggiadri ciottoli.

8 commenti:

  1. Qunidi ti sie beccata la famigerata bomba d'acqua.
    Noi dobbiamo incontrarci, comunque.

    Susibita

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    1. Sì svariate bombe d'acqua nella mia vita.
      Io ci sono sempre, tu battimi un colpo che ti imbuco a tradimento una domenica a caso. Così mi risolvo un'altro dì della festa. No ma dico sul serio eh. Aspetto solo il via.

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    2. Ho ripescato il tuo numero di telefono che mi avevi dato quando avevamo chattato su fb, è sempre lo stesso? o vuoi che ci sentiamo via mail? la mia è: susibita@alice.it

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    3. Wow! Ma quando commento dal telefono sono spantofolata!!

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  2. La foto con i sassi in bianco e nero è sublime!

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  3. Vi ringrazio, GiorgiaLand e Mafalda (vi posso includere in un unico grazie?)

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