lunedì 29 giugno 2015

Dire, fare, forse baciare...


Le bimbe certi giorni mi stremano emotivamente.
Però, anche, mi colmano a livello affettivo; riempiono ed esauriscono il mio universo emozionale in un continuo interscambio di feedback, violenti e tenerissimi, e confesso che, almeno in questa fase della mia vita, non riuscirei, nemmeno se fossi disposta ad investirvi molto più di quanto non faccia in termini di tempo, energie e attenzione, non riuscirei a dirigere altrove da loro un equivalente di quella affettività. Un pochino è anche una questione di sopravvivenza, di respiro quasi, ché siamo la risultante di un equilibrio di elementi differenti, di cui quello affettivo è senza dubbio fondamentale, ma non l'unico.

Affettivamente sono un mezzo disastro, lo ammetto.


Non che mi reputi una persona anaffettiva, ma ho sempre trovato immense difficoltà nella dichiarazione e dimostrazione degli affetti.
Di primo acchito alla gente non risulto simpatica, appaio fredda e distaccata, così mi dicono, almeno.
"Sei glaciale" mi è stato detto una volta, e la cosa mi ha più che altro stupito, perché mai avrei pensato a me  in questi termini; io, da dentro, mi sento tutt'altro che glaciale, mi considero se mai, iperemotiva, mi sento in completa balìa delle mie emozioni, mai semplici, mai quiete.
Vi assicuro che non è facile convivere con questo aspetto di sé quando hai dentro un mondo che si agita di un sentire che stenta a manifestarsi di fuori.
La scrittura è forse stato il mezzo attraverso il quale ho imparato a riconoscere e a dare una forma più chiara alle mie emozioni e ai miei sentimenti, e anche a comunicarle al di fuori di me, a renderle comprensibili.
Scrivere sul blog ha migliorato il mio modo di rapportarmi a me stessa, e poi anche di raccontarmi agli altri, insomma, ho lavorato sul dire.
Col fare e col baciare non ci siamo ancora del tutto.

Con le figlie è diverso.
Con loro il filtro della parola è abbastanza superfluo; con loro è soprattutto un fare.
Loro mi aiutano a raddrizzare le tortuosità del pensiero e del sentire, a sfrondare del più l'essenza del messaggio, ad essere lineare e chiara il più possibile.
Rania si butta di peso addosso alle persone, mi abbraccia con tutto il corpo, mi bacia e mi carezza, mi consola quando intruppo spigoli col piede e soffoco smadonni e mi tranquillizza la sera con rassicuranti pacche sulla schiena, come si fa coi bambini. Neutralizza le mie arrabbiature con una carezza e mi sussurra all'orecchio che sono "beyya beyya"; mi liscia e mi custodisce come un oggetto prezioso ma delicato, ché se non stai attenta si sciupa e si incrina.

Mimi cerca la mia approvazione con gli occhi, ammicca da lontano durante le esibizioni scolastiche di fine anno, gravitando sempre intorno al mio fulcro alla minima distanza consentita, pretende la mia attenzione e si allarma se non la trova, mi ritrae in abiti rococò e corone regali, sopra una massa lunghissima di liscissimi capelli dorati, il non plus ultra della bellebuonezza. Esplode in collere cieche e mi ripudia, dicendomi che si cercherà un'altra mamma, una che le voglia davvero bene, poi torna a conciliarsi a fine giornata dicendomi che non era vero. Un pochino questa figlia mi spaventa, e un pochino mi ci rivedo nella mia difficoltà di gestire emozioni forti. Saprò aiutarla a dare voce alla sua emotività senza esserne schiacciata?
Come mi vedono le mie figlie? Cosa manifesto loro?
Non so guardarmi da fuori, non riesco.
Come chi ascolta la sua voce registrata su un nastro e non si riconosce.
Spesso risentendo stralci di nostre conversazioni, colte mentre giro loro un video sul cellulare, neanche io mi riconosco; mi stupisco sempre di quanto il tono della mia voce suoni monocorde  e privo di particolari picchi espressivi, di partecipazione.
Mi chiedo se sono davvero così, se anche a loro appaio distaccata e inaccessibile, se anche loro mi percepiscono distante e indifferente.
Il timore è di privarle di uno scambio affettivo che sia anche esplicitato, che sia anche gestuale, e verbale, e ridondante di dichiarazioni, dove il bene che ti voglio non sia sempre dato per sottinteso, dove non ci si stanchi di ribadirlo.

Nella mia famiglia di origine non vigeva un regime di grande comunicazione affettiva.
In famiglia il tono dominante dello scambio e della comunicazione era la cifra ironica, il giudizio scanzonato e disimpegnato sul mondo, sugli altri, su noi stessi, che, come uno scudo, ci proteggeva dalla pesantezza della vita, dalla banalità, dal coinvolgimento, ci aiutava a non prendere troppo sul serio noi stessi e le nostre paturnie, i guai, i litigi con gli amici, i problemi a scuola.
Il rovescio era che anche quando avresti voluto esser presa sul serio, non c'era verso, e che quindi le vere angosce te le tenevi per te, pena lo svilimento e il ridicolo.
In famiglia noi non si parlava mai di sentimenti, non mettevamo mai in piazzale nostre debolezze, le nostre paure, per non parlare dei nostri sentimenti più profondi; le cotte, gli innamoramenti, le delusioni in amicizia, le sconfitte più brucianti, le invidie e le gelosie.
L'affetto reciproco tra noi fratelli e genitori era scontato e mai dichiarato: ci si prendeva in giro l'un l'altro e questo bastava come conferma.
Eppure c'è un lato profondo di noi che esige serietà e considerazione dagli altri. L'ironia è come uno scudo, ma spesso diventa un'arma contro noi stessi, che non possiamo permetterci di offrire il fianco, di mettere in gioco ciò a cui teniamo di più.
Le emozioni forti e primordiali uscivano solo nei momenti di tensione, ed erano sempre di rabbia, attacco, accusa, rivendicazione.
Non so se sia lo stesso in tutte le famiglie, o almeno in molte, chissà.
Comunque ci volevamo e ci vogliamo bene. Un bene che non ci raccontavamo ma che si manifestava nel fare, nel vivere esperienze insieme, nello scambio di doni e nel celebrarci a vicenda ai compleanni, nei gesti, spesso imbarazzati e sminuiti con un'alzata di spalle.
Il bene del fare è quello più difficile da vedere, ma una grande risorsa per chi non è in grado di dirlo.

Crescendo ho, con fatica di un'autodidatta, messo in atto una rieducazione emotiva personale, tutt'altro che compiuta.
Mi muovo nella zona grigia dei sentimenti in sordina, e tuttora mi trovo in enorme disagio di fronte alle manifestazioni emotive plateali; tuttora mi irrigidisco  di fronte al dolore di un amico che chiede conforto e, magari, un abbraccio; ed è anche questo probabilmente il mio maggior impedimento ad affrontare le sfuriate di rabbia, per fortuna sempre più sporadiche, di mia figlia, la mia difficoltà ad accettarle come parte del processo di apprendimento, espressione di uno spettro di emozioni vasto e sfaccettato, da non reprimere.

Un sera che, finito di mangiare, sparecchiavo la tavola e intrattenevo le bimbe davanti ai cartoni, mi son fermata un attimo a guardare dall'alto i quasi cinque anni di Mimi seduti sulla sedia in terrazza e mi è sembrata improvvisamente quello che è: una bambina, una bambina piccola, a cui forse a volte richiedo una disciplina emotiva sproporzionata alla sua età. L'ho guardata che rideva come ride una bambina davanti ai cartoni, ingenuamente e senza freni, e ho pensato che tra qualche anno, probabilmente, non ci sarà più questa bambina dai sentimenti ancora così integri, ancora così in grado di emozionarsi per un fiore, ancora così in grado di prendere seriamente tutto ciò che riguarda il suo mondo, senza snobismi preadolescenziali.
Per lei io sono ancora per la maggior parte del tempo colei che sa, colei che consola, colei che risolve, colei che saluti con fatica quando vai, colei che rivedi con gioia, e non sono ancora fonte di imbarazzo di fronte ai suoi coetanei.
Mi sono seduta accanto a loro e me la sono presa sulle ginocchia.
Mi ha abbracciato e si è sdilinquita in una delle sue verbose dichiarazioni d'amore: "Mammina, ti voglio tantissimo bene! Sono contenta che oggi mi hai preso in braccio, perché prendi sempre in braccio Rania, e me no. Mamma, non mi sento amata!"
E' un tormentone che Mimi mi ripropone da un po', e, a parte l'impatto destabilizzante delle prime volte, ho capito che è un po' il suo modo enfatico (Mimi è molto enfatica con tendenze alla drammatizzazione) per dirmi che vorrebbe un po' di coccole, conferme di affetto che tendo a reputare ovvio, visto anche che lei "ormai è grande".
Sono contenta che si sforzi di raccontare quello che le accade dentro, malgrado i momenti di chiusura e difficoltà comunicativa. Mimi ha il dono del dire.

Ci sono giorni che ho l'impressione di passare il tempo a urlare e a rimproverare e pur rendendomi conto che spesso riverso sulle bimbe una mia tensione non esattamente correlata a loro, ma al corso dei miei pensieri e stati d'animo, e so che non è giusto, mi chiedo per che razza di rapporto io stia gettando le basi.
Poi vedo che loro, passato l'attimo di crisi, proseguono tranquille nelle loro attività, e mentre io ancora rimugino e mi macero nei miei errori pedagogici, sono passate già ad altro, e sono tornata ai loro occhi la mamma buona a cui chiedere di leggere una storia.
Forse il messaggio più importante da far passare è che, malgrado le urla e i litigi, la rabbia e i ripensamenti, le crisi e le inadeguatezze, malgrado tutto, io, per loro, ci sono e ci sarò, che ci prendiamo cura le une delle altre, gli uni degli altri.
E, anche se sembra scemo, riuscire a dirsi "ti voglio bene" come nelle più melense serie tv americane. Quando ci fai l'orecchio, poi, non sembra più così stupido; è tutta questione di abitudine.

Rania ha una spiccata intuitività e attenzione verso gli stati d'animo altrui.
Mi stupisce sempre come si preoccupi per la sorella quando la vede arrabbiata o in preda a pianto.
L'altro giorno le ho urlato per una sciocchezza: aveva piovuto molto la notte, e lei era entrata dritta coi sandali in un'enorme pozzanghera.
Lei era mortificata e, probabilmente, non capiva.
Non capivo nemmeno io il perché di quella mia reazione spropositata, ma la fretta, la stanchezza, l'essere sempre di corsa e dover pensare per tre, sempre questi gli alibi che uno si racconta.
Dopo aver lasciato Mimi alla sua "scuola dei bimbi grandi", l'ho presa in braccio per fare l'ultimo tratto di strada che ci avrebbe condotte al nido.
Le ho detto che mi dispiaceva di aver urlato, che avevo sbagliato, perché le cose non si dicono urlando, che quando si urla l'altro non capisce e si spaventa solo. Le ho chiesto se l'avevo spaventata e mi ha detto di sì. L'ho abbracciata e le ho detto che anche mamma, a volte, si comporta come fanno Rania e Mimi, quando litigano e si urlano addosso per qualsiasi cosa, che anche io a volte urlo per cercare di farmi sentire di più, o solo perché sono stanca e non riesco a controllarmi.
Con la sua solita diplomazia mi ha risposto: "E ma-mene, mamma, to-tti coccupale".

Probabilmente commetto tantissimi errori e tanti ancora ne commetterò, ma avere una figlia che ti sa consolare, perdonare, e che sa dirti "non ti preoccupare" a soli due anni, è qualcosa che ti mette in pace con te stessa. E' più facile anche per te perdonarti, e dirti "non ti preoccupare".

Una sera che ero distrutta, con la faccia affondata tra le mani mi si è avvicinata con estrema delicatezza e mi ha chiesto se ero "titte" (triste).
- No amore, non sono triste.
- Tai male, mamma?
- No, amore, non sto male. Sono solo stanca.
- Tei ttanca, mamma? Oh, poea mamma!
Povera mamma.
Chi, io?

Rania, io credo, ha il dono del baciare.
Magari da lei posso imparare anche io.


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