mercoledì 15 luglio 2015

Mamma è al lavoro.


La mattina sto andando a lavorare.
"Scusami se non ti ho risposto; ero al lavoro".
"No, a luglio lavoro, non partiamo".
"Mamma domani ci devi andare, a lavoro?"
Sì, suona sempre bene.
Non saprei dire perché ho questa dannata esigenza di definirmi una persona che lavora, di dichiarare al mondo che ho un ruolo produttivo nella società scongiurando le eventuali e possibili accuse implicite di: mantenuta, fancazzista, casalinga, tu-che-non-lavori, cosa-fai-nella-vita?

Ho un nervo scoperto e questo è la mia non-situazione lavorativa.
Sarà per questo che evito sempre di chiedere agli altri che lavoro fanno, del resto ciò non impedisce loro di domandarmi spesso e volentieri che lavoro faccia io.
Inizialmente rispondevo stupidamente: "Io non lavoro. Da quando ho avuto Mimi non ho ancora trovato niente. Poi è arrivata Rania e...".
E...? La crisi? La disoccupazione? Il precariato? Quale scusa accampare? La pigrizia? L'inconcludenza? L'incapacità? L'accontentarsi? Il lasciarsi andare? Il gettare la spugna?
C'è chi si accanisce e insiste, crudelmente infierendo su di me: "Sì, ma cosa facevi PRIMA?"
Prima? Prima facevo l'università.
"Ah, sì? E cosa studiavi?"
Per qualche oscura ragione tendo a sentirmi perennemente in imbarazzo; per la mia vita, per le mie scelte, per ciò che faccio o che non faccio, in dovere di giustificarmi di fronte a un mondo giudice sarcastico. Per qualche assurdo motivo tendo a precedere i possibili commenti di un interlocutore a cui probabilmente non frega un emerita ceppa dei miei trascorsi e dei miei motivi, e che magari non aveva alcuna intenzione di commentare, che magari non aveva alcuna intenzione di crearsi un'opinione circa i cazzi miei.
Eppure lo faccio. Tutte le volte faccio lo stesso errore, di auto-denigrarmi.
Devo possedere il gene innato della vergogna, chissà.
"Ehm... Io? (No, mi'nonna) Ho studiato... storia dell'arte. Sì lo so, c'era da aspettarselo che non trovassi lavoro con una laurea simile, ma sai, quando si è giovani... uno sceglie in base a ciò che gli piace, poi tiri a finire, non stai tanto a pensare a che farai dopo..."
Una deficiente, proprio.

Sto cercando di darmi un tono. Da qualche tempo a tale domanda ho imparato a rispondere una semi-verità che soddisfa assai di più il mio interlocutore dei miei farfugliamenti autodenigratori.
"Ho lavorato nella pubblica amministrazione. Sai, contratti a progetto".
Poco male se ciò accadeva nel lontano 2005.
Dài almeno l'impressione di una che ha una storia alle spalle, che sa fare qualcosa, che ha fatto qualcosa.
E' davvero assurdo, se ci penso, che io mi debba sempre sentire in difetto.
I primi anni di università confessare al mondo di farmi mantenere dai miei per studiare fuori casa, quando avrei potuto fare a meno di muovermi dalla Capitale e da casa-di-mammà, era un'onta colossale per me. Spiegare per quale cazzo di motivo io avessi avvertito questa necessità è sempre stata la peggiore arrampicata sugli specchi che io abbia mai intrapreso.
- Dovevo trovare me stessa. (Comodo, con i soldi di mamma in tasca).
- Beh, sai... per fare nuove esperienze. (Ad esempio?)
- A Roma non mi trovavo molto bene. Questa è una città più a misura d'uomo (sarà questo il motivo per cui stai sempre a sparare merda contro lo stile di vita e le visuali anguste della provincia?)
- Bella domanda! (E qui scendeva una spessa coltre di mistero).

Fu così che, ben presto, per emanciparmi dal ruolo di rampolla mantenuta (e perennemente senza un soldo in tasca comunque, ché quel che passava la casa bastava appena a pagarmi l'affitto della camera e poco più) mi misi a lavorare.
Lavorai nelle librerie nel periodo dei testi scolastici, nei ristoranti nei fine settimana, ho pulito sottopassaggi stradali che sapevano di piscio. Quando iniziai a mantenermi vitto alloggio e studi con il mio impiego serale da cameriera,  sudando sangue alla preparazione di ogni maledetto esame, combattendo contro il calo della palpebra pomeridiano prima di dovermi cambiare per il turno lavorativo delle 19, iniziai con orrore a vedermi passare avanti quelli più giovani di me, i mantenuti senza scopo nella vita, quelli che non si facevano un problema del portare avanti gli studi grazie ai soldi di mamma e papà, che si laureavano e che poi, magari, venivano a festeggiare nel ristorante dove io lavoravo, mentre io portavo loro i bicchieri per lo spumante.
E intanto, continuavo a sentirmi a disagio, continuavo a sentirmi sbagliata in un ruolo sbagliato, continuavo a sentire il dovere di giustificarmi.
Chi cazzo me lo faceva fare?
Perché ci mettevo tanti anni a finire 'sta cazzo di università?
E perché mi pareva sempre di intravedere un accenno di sorriso canzonatorio quando dicevo di lavorare come cameriera?
No: la bufala dello studente indipendente che vive da solo, studia lavora e si paga le tasse universitarie, impara a vivere assai meglio e prima degli altri era stata smascherata.
Fare quella vita non era né eroico né romantico né dignitoso né gratificante come pensavo.
Va bé, magari giusto un ciccinino gratificante. Fatto sta che gli studi andavano a rilento, io sentivo di non rendere quanto avrei potuto, ero sempre nervosa, stanca e non avevo un cazzo di tempo per nessuna attività ricreativa.
Quando gli altri cazzeggiavano io ero a lavoro. Quando gli altri partivano per le ferie, io dovevo lavorare anche di più, e facevo i doppi turni.
Eppure sono arrivata in fondo.
Coi miei tempi, con i crolli periodici, ma sono arrivata.
Ed ora?
Ora il nulla. Il nulla mi ha fagocitata tutta intera e sono piombata nell'inutilità di una vita priva di scopo.
Sarà stato per quello che mi sono affrettata a fare una figlia?
Non lo saprò mai, ma lo sospetto.

Al momento sto facendo la baby-sitter.
Il tempo che dedico giornalmente al mio lavoro (tre ore di servizio più quei quaranta minuti di auto che mi servono per arrivare e per tornare dal luogo in cui) per quanto esiguo rispetto all'infinito dispiegarsi delle interminabili giornate di luglio, che si concludono assai dopo il calar del sole con le bimbe che non placano gli ardori infantili prima delle undici di sera, quel tempo è un tempo di sana e necessaria decompressione.
E' un tempo in cui lascio a casa le incombenze domestiche e genitoriali, che, dolente e nolente, affido riluttante al genitore maschio, in genere lasciato rantolante a dormire nel talamo, vittima della sua devozione religiosa che lo costringe ad un massacrante digiuno diurno che chiameremo Ramadan.
Mi stacco con fatica dalle richieste di presenza delle figlie che spesso mollo davanti alle puntate di Masha e Orso mandate a memoria.
Qui mi lascio andare ad una routine pacata, che consta fondamentalmente di tre tempi: una passeggiata di una mezz'ora in campagna, a vedere galline e conigli del nonno, e ritorno; un bagnetto di dieci minuti durante il quale si allaga il pavimento del bagno con ripetuti lanci di giochini acquatici sul suddetto; nanna.
Non negherò che la nanna è il momento per me decisamente più rilassante e, all'inizio almeno, destabilizzante, perché tutt'a un tratto mi trovavo nella condizione di avere un tot consistente di tempo libero da incombenze e "forse-ora-dovrei", tempo che generalmente ho impiegato nella lettura di Agata Raisin.
Tempo che mi sento finalmente nella condizione di non dover render conto a nessuno se decido di utilizzarlo a stare seduta sul divano a guardare la parete arancione sotto il getto d'aria del ventilatore acceso.

Prendersi un pezzo della vita di qualcun altro partecipando in qualche misura alla sua organizzazione, al suo quieto, invisibile svolgersi, lasciarsi andare al ritmo pacato della routine, sempre lo stesso paesaggio di campagna, sempre lo stesso vialetto sterrato, sempre le stesse galline cò-ccò, sempre lo stesso ditino puntato sempre sugli stessi dettagli, ché i bambini, si sa, non si crucciano di essere ripetitivi, sono cose che non ho mai fatto, sono lussi che non mi sono mai concessa, sempre smaniosa di fare il più possibile, sempre con il sentore del tempo che non stavo utilizzando per fare ciò che volevo o che avrei dovuto.
Certo, occuparsi di una bambina non tua per sole tre ore al girno è qualcosa che non ha nulla a che vedere con l'occuparsi di una figlia, o di due, per l'intero arco della giornata e della nottata, è qualcosa che ti esautorizza da ogni responsabilità circa le possibili tare psicocaratteriali che ogni tuo atto o scelta potrebbe imprimere sulla personalità della tua assistita, qualcosa che ti consente un distacco emotivo difficilmente immaginabile per chi non ha mai preso la genitorialità come una massima investitura divina, qualcosa che ti consente finalmente di tacere, mentre spingi quel passeggino attraverso quel paesaggio agreste e lei guarda scorrere i campi iontorno a sé, senza che tu debba continuamente riempire quel silenzio di canzoncine sceme, o esclamazioni di meraviglia, o notazioni didascaliche su quanto accade intorno.
E ancora una volta ti dici che se ti fossi dannata l'anima appena appena un ciccinino di meno con le tue, ma soprattutto con la prima, sicuramente ne saresti uscita meno provata, e probabilmente avresti svolto un lavoro anche migliore.
Ma oramai è andata.
E smetti di crucciarti se stai togliendo alle tue bambine tre ore preziosissime e inestimabili della tua presenza accanto a loro per badare ai figli d'altri, ché finalmente permetti anche a loro di inventarsi da sole il loro tempo, e di appurare che anche se mamma non c'è, non è che finisce il mondo.

Sul lavoro, così mi hanno sempre detto, non sono brava ad autopromuovermi; tendo a mettere le cose fin troppo in chiaro fin dal primo giorno, a mettere "non una, non due, ma diciotto mani avanti", per citare una frase di un mio datore di lavoro, di avanzare sin da subito le mie possibili mancanze, insufficienze, carenze o incongruenze onde fugare il rischio di una pretesa disattesa, gettando un'ombra di discredito sulle mie capacità e attitudini.
In ambito lavorativo devi imparare a non sottostimarti, devi imparare ad apprezzare e a valorizzare quel che fai, quanto fai, come lo fai.
Per prima cosa devi imparare a non sminuire ciò che fai.
E' per questo che sto cercando di smetterla.
Smetterla di pensare che siccome "faccio la baby-sitter", questo non sia vero lavoro, come se si potesse chiamare lavoro solo quando hai un contratto firmato, uno stipendio garantito, le ferie pagate, e passi otto ore al giorno col culo su una sedia dietro una scrivania a sbrigare pratiche.
Quella è un'altra bufala: la bufala impiegatizia degli anni '80.
Come se fosse auspicabile smettere di crescere a un certo punto, smettere di cercare, smettere di provare a ricominciare da quel che trovi.
Ché non esiste un lavoro meno dignitoso di un altro solo perché ti occupi di cose piccole, quotidiane, invisibili ai più, di una piccola realtà, di qualcosa che sai fare bene e se ti riesce bene non significa che quella cosa sia banale, facile o alla portata di tutti.
Significa che la sai fare bene.

12 commenti:

  1. Certo che è un lavoro! E benedetto il fatto che ci sia qualcuno che lo fa! E te lo dice una che ha cercato come l'aria una baby sitter affidabile!
    E dà una immensa utilità! Alla mamma della bimba perchè regala serenità sapere di poter lasciare una figlia in mani affidabili, anche se retribuite. Non basta pagare per avere questo! E dà serenità alla bambina perchè avere una persona sicura e serena a fianco le permette di sviluppare l'autonomia dalla mamma senza traumi.
    Quindi lavori. Ed è un lavoro a tutti gli effetti.Produci utilità per qualcuno. E sei retribuita. Perchè non definirlo lavoro?
    Perchè non pensare di creare un micro nido a casa conciliando lavoro e famiglia?

    Io, se qualcuno mi scegliesse per lasciami i suoi figli da accudire, mi sentirei lusingata!
    Hanno scelto te e non un'altra. E non credo per mancanza di opzioni.
    Non essere insicura!
    E anche fare la mamma è un lavoro. Non è retribuito ma le responsabilità e le implicazioni che ha sono enormi!
    Altro che gestire banche o aziende! Crescere un altro essere umano è la cosa più difficile della terra!
    Io lavoro e sono mamma e posso dirti che la cosa che mi impegna di più è fare la mamma!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie cara Giorgia.
      La mia insicurezza non è legata unicamente al lavoro, è una mia dannatissima condizione esistenziale, con cui in parte convivo e convivrò, in parte devo scendere a patti e riuscire a forzarla.
      Mi rendo conto dell'utilità di questo lavoro e anche del fatto che sia faticoso e generalmente sottostimato, per questo, malgrado stare con i bambini mi piaccia molto e io mi senta molto a mio agio in loro compagnia, lo stesso non è proprio il lavoro che ambisco. Però apprezzo e rendo grazie per l'opportunità concessami.
      Il sentirmi apprezzata per "come" lo faccio, dà poi una gran soddisfazione, e un ritorno di autostima di cui forse ogni tanto uno ha bisogno.
      In genere trovo difficoltà a definirlo lavoro perchè si tende a considerarlo qualcosa che fai a 20 anni mentre studi, per guadagnarti qualche soldo, e che non sarà l'impiego della tua vita. da qui forse il mio sentirmi un pochino fuori tempo e ruolo... ma va be'.

      Elimina
  2. hei....capisco bene il tuo punto di vista....la mia storia è molto simile alla tua, metti lettere moderne al posto di storia dell'arte e lavori notturni da cameriera...il sonno lo studio...tutto che va lento...ma poi io sono rimasta incinta al terzo anno di università sicchè la laurea non l'ho mai vista...e già questo ti deve far sentire fiera...e neanche io ho mai lavorato. Sempre a casa con i bambini, ora sono tre, ho collezionato 3 anni di scuola estetica e 3 anni di scuola di shiatsu...lavoro a casa, quando posso, tanto da definire il mio lavoro più un hobby, perchè mio marito ha trovato un contratto a tempo indeterminato, perchè è sempre costantemente in giro per lavoro e qualcuno a casa con i nostri figli doveva starci....e dato che di nonni non ne abbiamo (vicini intendo...)....Quindi tirati su, perchè mi sembra che te un piccolo lavoro ce l'hai...e questo è quello che te puoi offrire in questo momento, non sminuirti. Anche io spesso qualche anno fa paragonavo la mia vita alle mie amiche che invece erano in piena carriera....è una malvagità gratuita che ci facciamo da sole. Le vite non sono uguali e non sono paragonabili...te devi essere ASSOLUTAMENTE fiera di ciò che hai fatto, che fai per la tue figlie e che fai per te stessa. perchè sei molto forte. un abbraccio

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, è vero: le vite non sono tutte uguali.
      Sicuramente la mia attuale è conseguenza delle scelte fatte finora. Sicuramente ciò che nelle altrui vite guardo come a traguardi inarrivabili per me, vissuti dall'altra parte sono altrettanti compromessi con se stessi, e fatica, e rinunce, e insoddifazioni e incertezze. Credo che con la mia insoddisfazione perenne devo imparare a convivere senza farmene schiacciare.
      Forse sono fin troppo fiera di me, invece, tanto da non sapere accontentarmi di un risultato modesto o di un impiego umile.
      Sono però una che si adatta a fare qualsiasi cosa e che trae immensa gratificazione da ciò che fa. Quindi forse non tutto è perduto...
      Grazie per la tua testimonianza e vicinanza!

      Elimina
  3. Mi piace tanto il tuo blog, anche se non commento mai...mi piace come scrivi e poi mi rivedo un pò in te, anche io romana di un quartiere periferico, venuta in Toscana, messe radici qui. Non ho sposato un beduino, ma un casertano, e anche qui ci si possono trovare delle somiglianze! :) Però io lavoro, e ora che sono a casa in maternità per la prima volta mi rendo conto quanto è infinitamente faticoso fare la mamma a tempo pieno, che in confronto il lavoro è quasi riposante! E non anche se a volte fantastico di poter restare in questa condizione per sempre (cosa impossibile, perchè il mio stipendio ci straserve!), non so se ne sarei veramente capace! Quindi concordo con le latre, devi essere fiera di te al 100%!!!!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Allora grazie infinite per questo outing! sapere che ci sono persone che ti leggono con piacere e frequenza e che apprezzano quel che scrivi è un grande incentivo a continuare a farlo, ché a volte questa avventura del blog sembra un po' un vicolo cieco, una scatola chiusa in cui riversi parte della tua anima sperando che qualcuno ripeschi il tuo messaggio nel mare magno della rete, e spesso mi chiedo se questa forma di diario molto intimo e cervellotico possa interessare a qualcuno.
      Stare con le mie bimbe mi piace, e se è faticoso non credo che sia per la quantità di tempo che trascorro con loro ma perché ho davvero pochi punti di appoggio con cui dividere il fardello e a volte me ne sento un po' schiacciata, a volte giri un po' a vuoto e ti chiedi se è sano puntare tutto su di loro, investire tante energie solo su di loro, caricarle di tante attenzioni e farne lo scopo ultimo della mia esistenza. Non credo sia un bene neanche per loro.
      Queste poche ore al giorno in questo periodo sono state davvero una boccata di ossigeno. Per me, ma credo anche per loro..

      Elimina
  4. Grazie a tutte!
    I vostri interventi richiedono una risposta specifica ciascuno,e lo farò subito, chiedendo scusa per il ritardo con cui arrivo.
    Grazie davvero per il sostegno e l'incoraggiamento!

    RispondiElimina
  5. È un lavoro eccome ! Tutti i lavori a mio parere sono "giusti" ma alcuni più di altri .. Per esempio la baby sitter .. Io l ho fatta ai tempi della scuola .. Ed ora che ne avrei bisogno non la trovo neanche a pagarla oro !! Fai un lavoro molto prezioso !!! Un abbraccio Sabri ( quella della cartolina da St moritz con masha )

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Beh, sai ci sono stagioni della vita in cui sembra più legittimato che in altre. Sgomitare con studentesse 22enni per tenere a ore i figli delle mie coetanee mi fa strano, soprattutto quando lascio a casa le mie. Ma insomma,tutto si può fare e tutto può avere risvolti inaspettati e positivi. Grazie mille per la cartolina e per tutto! ;-D

      Elimina
  6. Figlia unica, prima della classe, tutti gli occhi addosso, mai una défaillance, grandi aspettative.
    Ed ora....nulla.
    La vita mi ha regalato un bambino vittima di malasanità disabile gravissimo da accudire a tempo pieno, ed un futuro radioso da badante non retribuita.
    Ma ho fortissimamente voluto una bimba subito dopo (sana come un pesce per fortuna), e sto cercando di aprire una casa vacanze per poter almeno scambiare 10 minuti di chiacchiere con 2-3 turisti rompicoglioni a settimana, per sentirmi un po' più viva e avere soldi MIEI con cui contribuire.
    Ce la farò prima o poi (e ce la farai anche tu) a sentirmi utile per questo sporco lavoro che nessuno vuole più fare: crescere degli individui imperfetti come noi ma che saranno speriamo almeno un po' felici.
    Baci!

    P.s.: ci metti 3 secondi netti a capire chi sono!!!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Le grandi aspettative sono la nostra condanna. Lo diceva pure Dickens.
      Sei una gran donna e detto tra noi (ah ah) non sono convinta che chi ha intrapreso, per scelta o per corso degli eventi, strade differenti si senta realmente più realizzato/a.
      Penso sia più una condizione mentale, questo non sentirsi mai abbastanza, mai soddisfatte, forse legato un po' anche a quell'infanzia -adolescenza in cui tutti ti consideravano una specie di piccolo prodigio dal fururo fulgido.
      Fortuna che la vita è altro!

      Elimina
    2. La vita decide lei...sta a noi cercare di farcela prendere nel migliore dei modi, già quella è la conquista più grande. Prima o poi mi farebbe piacere far conoscere le nostre bestiole...se passi da Roma per una tappa lunga fatti sentire...mi riconoscerai come quella vestita da Anna (Elsa mi è proibito financo nominarla).
      A proposito, ti leggo sempre con grande piacere e estrema partecipazione!

      Elimina

Che tu sia un lettore assiduo o un passante occasionale del web, ricevere un commento mi fa sempre piacere, purché inerente e garbato.
Grazie a chi avrà la pazienza e la gentilezza di lasciarmi un segno del suo passaggio.