martedì 10 novembre 2015

Oltre il reef


Siamo stati fuori, un paio di week end fa, per l'immaginario ponte dei morti, che ponte non era, poiché l'unico giorno festivo in questione cadeva di domenica, ma sono sottigliezze al giorno d'oggi, soprattutto per chi non ha cartellini da timbrare il lunedì mattina, come la sottoscritta. Sono i vantaggi della disoccupazione. Dunque un week end lungo in gita con zii e cugini (mio fratello e famiglia), graziato dal meteo che ci ha regalato giornate luminose di caldo sole, per quanto ventose, con buona pace dei miei meteoropatismi.
Genova ci ha accolto coi suoi svincoli micidiali e i suoi palazzi proiettati verso il cielo, la sua umanità cordiale, la carta da parati anni '90 della nonna e i terrazzini che danno su cortili vertiginosi, tagliati dai fili da bucato che ne spezzettano in forme irregolari il poligono di cielo soprastante.
La città dal sapore retrò, assediata tra mare e monti, col suo porto futurista e il suo colossale acquario, meta agognata e principe dalla nostra gita, ci ha ospitato per tre giorni e quattro notti.
La città mi ha un po' frastornata, con le sue distanze da città, i suoi marciapiedi stretti tempestati di cacche di cane, i percorsi tortuosi per arrivare a comprare la farinata buona, che ti sembra di tornare continuamente sui tuoi passi e non hai la minima idea di dove sei finita, e magari stai a pochi passi da casa.

Per questa vita di città ho perso molto lo smalto.
Penso che il luogo dove vivi finisca per condizionare il tuo modo di essere, e di pensare la realtà.
Guardavo quelle pareti verticali infinite, di terrazzini e finestre, in quella città sviluppata soprattutto in altezza, e mi chiedevo come deve essere, rientrare a casa tua al dodicesimo piano di un condominio, alla periferia di una città adagiata come un bagnante sul bagnasciuga a ridosso del mare, una città lunga e stretta, una città che per entrarci tutta si è messa in verticale.

Ripensavo alla mia piccola città, alle sue casette basse e all'intonaco giallo ocra delle facciate, ai giardini recintati delle bifamiliari, alle piazzette sbilenche del centro e alle rastrelliere per le biciclette, alle strade lastricate a pietroni e a quel senso di piccolo mondo familiare, a cui mi sono ormai abituata, a cui a volte divento insofferente, a quell'essere subito fuori porta, proiettata verso altrove.
Credo che forse abbiamo bisogno di entrambi, del grande, del piccolo, dell'infinitamente vasto, del vertiginosamente alto, e poi del rassicurante vicino, dello spazioso cielo sopra l'orizzonte di tetti, del familiare come dell'estraneo.
Credo che spostarsi sia bello soprattutto perché ti permette di immaginarti altrove, di pensare la tua vita altrimenti, senza vincoli, di assaporare per un po' come sarebbe se, come saresti tu, come crescerebbero le tue figlie, come vivresti la tua giornata, come volgeresti gli occhi al cielo, come ti orienteresti nel dedalo di strade trafficate, come ti rapporteresti alla gente, come saluteresti i passanti o come non li saluteresti, come entreresti nei negozi e per chiedere cosa, con che parole perché ti capiscano?
Io quando sono passata da Roma alla Toscana, ho gradualmente dovuto abbandonare il mio "pizza bianca" per il più comprensibile "schiacciata", per esempio, se volevo che mi dessero ciò che desideravo subito e senza occhiate interrogative.

Cambiare aria si sa che fa bene, anche quando ritorni distrutto da scarpinate e imprevisti di percorso che ti costringono a rimanere fermo sulla via del ritorno dopo nemmeno mezz'ora di viaggio con la macchina in avaria carica di bagagli e bambini, in attesa del carro attrezzi.
Non è successo a noi ma a i nostri compagni di viaggio; fosse successo a noi me la sarei dovuta vedere, oltretutto, con un beduino intrattabile che avrebbe disseminato smadonni a non finire.
Sono quelle cose che rendono forse memorabili i viaggi, anche se per la verità è più facile prenderla con filosofia e relativizzare quando non succede proprio a te in prima persona.
Ma comunque resta il fatto che quando sei in libera uscita ti senti un po' invulnerabile alle avversità.
Succeda quel che succeda, tu sei comunque in vacanza, uno stato di grazia che esula dal tuo quieto vivere, che ti pone al di sopra dei colpi bassi del destino, fuori portata dai crolli d'umore quotidiani.
E' come se fossi continuamente consapevole che lo scopo ultimo del tuo essere lì è quello di godere a pieno di tutto: del tempo che trascorri, dello stare insieme, delle esperienze, della novità, del viaggio, della bellezza.
Quando, dopo la lunga pausa, nel pomeriggio siamo finalmente ripartiti, mollati gli altri alla stazione del treno, abbiamo pensato di fare un pezzo di tragitto fuori dall'autostrada, ché noi tutto sommato non avevamo davanti a noi un lungo viaggio da compiere e giacché c'eravamo, perché non provare.

La strada, l'ho già detto altre volte, è terapeutica.
Per quanto sia ormai metafora abusata della vita, c'è da dire che non in tutti i periodi della tua vita hai realmente l'impressione di essere in cammino, in viaggio verso qualcosa, e quando ti senti ristagnare è terribile.
La strada invece si lascia continuamente dietro di sé e occorre anche il caso che tu ti imbatta in strade bellissime.
L'Aurelia per esempio per me è bellissima, che la si percorra in su o in giù, verso nord o verso sud, attraversa paesaggi suggestivi e vari, sa regalarti scenari notevoli, tramonti commoventi, scorci da far paura.
Già dal nome sembra una vecchia amica, la signora Aurelia, col suo faccione bonario e le maniche rimboccate, che viene in visita a portarti le verdure del suo orto e le crostate fatte in casa.
Si inerpica su costoloni di montagne aprendo sotto di te voragini a capofitto sul mare, che tu rimani per un po' col fiato sospeso, un po' per la bellezza inattesa di quello spettacolo, un po' per la vertigine e il pensiero inevitabile del volo che fareste a finire disgraziatamente fuori corsia.
Gira e rigira e va così, curva dietro curva, torna su se stessa seguendo la linea della catena dei monti e continua ad aprirti davanti spettacoli inattesi; vedi snodarsi la linea di cresta, orlata di alberi sulla cima, che si stagliano sulla linea dell'orizzonte come nappe piumate, e ti viene da pensare al senso del sacro, al concetto di sublime, agli artisti romantici e ai loro orridi spalanchi, al fatto che giustamente gli antichi riconoscessero in questi luoghi impervi la presenza del divino, nelle sue svariate forme. Magari un tempo percorrevano quelle stesse vie a dorso di mulo, noi invece voliamo su un nastro di asfalto e non facciamo in tempo a meravigliarci di quanto ci appare nello schermo del parabrezza, che già infiliamo una galleria, e già si apre un'altro scenario, altrettanto maestoso e spettacolare, e tu vorresti dire a ogni curva: guarda che bello lassù quel paese come se ne sta aggrappato alle rocce, e lui già è passato e non c'è più.
Vero è che la strada si inoltrava sempre più nell'entroterra asperrimo per quanto suggestivo di cime e di anfratti, e la luce calava insieme al sole che già non vedevamo più dietro le creste dei monti liguri, e il navigatore a tratti prendeva e a tratti no, e ogni volta ricalcolava i tempi di percorrenza che sembravano aumentare anziché diminuire con la strada percorsa, e così alla prima occasione abbiamo abbandonato il nostro percorso sublime e siamo rientrati in autostrada.

Il viaggio è quella dimensione che ti permette di inquadrare la tua vita di sempre, il tuo piccolo ordinario, da qualche parte nel mondo, di collocarti al suo interno senza perdere di vista la vastità ancora ignota, tutto quello che non appartiene al tuo quotidiano, e che però gli dà un senso, perché non possiamo fermarci a ciò che ci è noto, perché finiremmo per non vedere più nemmeno quel che abbiamo sempre sotto gli occhi, se non li volgessimo ogni tanto altrove, perché senza un termine di paragone finiremmo per perderci nella vacuità dei gesti di sempre, senza confrontarci con tutto quanto non ci appartiene finiremmo per dimenticare che cosa ci rende differenti, unici e peculiari, che cosa è nostro.
E solo allontanandocene possiamo poi tornare al noto consapevoli che solo per una casualità apparteniamo a quel mondo, e non ad un altro, che malgrado le nostre smanie di sicurezza e stabilità, rimaniamo pur sempre di passaggio, in questa vita, e che il nostro limite maggiore non sarà tanto lo spazio che vi occupiamo, quanto il tempo che ci è dato per precorrerlo, per cercare di capirci qualcosa in questa ragnatela di casualità che è la vita. E però pur sempre ci riconosciamo nel nostro, perché in qualche modo finisce per appartenerci, e noi gli apparteniamo, anche se da ogni luogo che visitiamo o che lasciamo ci portiamo sempre via qualcosa, che rimane con noi, che condiziona il nostro agire ed essere successivo.
Le case, le strade, i volti, le piazze, i percorsi, gli usci; tutti pezzi caleidoscopici che compongono il mosaico della nostra esistenza.

Non siamo pesci in un acquario; anche quando passiamo la vita ancorati al nostro reef, spingerci ogni tanto nella vastità dell'oceano, sondarne le profondità, rende più dolce, poi, fare ritorno nella nostra anemone. Marlin docet!

L'acquario

L'orizzonte

Il limite

La Vastità

Nessun commento:

Posta un commento

Che tu sia un lettore assiduo o un passante occasionale del web, ricevere un commento mi fa sempre piacere, purché inerente e garbato.
Grazie a chi avrà la pazienza e la gentilezza di lasciarmi un segno del suo passaggio.